giovedì 10 marzo 2011

Tendere all'autorealizzazione





Introduzione

Spesso si legge, quasi esclusivamente in rete, di come l'individo sia soggetto al dominio di un elité di persone, un oligarchia, che tenta in tutti i modi di controllare l'uomo per renderlo un individuo passivo, concentrato a seguire squalificanti programi televisivi e sport in modo da distrarsi dai problemi reali. Addirittura si ipotizza come una razza o più razze aliene controllino l'essere umano per i più svariati interessi. Non voglio negare come alcune di esse siano teorie affascinanti e valide, che seguo tra l'altro con un partecipato interesse senza negarmi però, un minimo senso critico in modo da potermi districare ed orientare nel magma delle informazioni incontrollate e talvolta poco serie. Temo che tali considerazioni, seppure propedeutiche ad acquisire maggior consapevolezza e punti di vista diversi e divergenti, tendano a dequalificarci come esseri umani in modo che, se la colpa è fuori di noi, possiamo liberarci delle nostre personali responsabilità e puntare il dito su qualcun'altro al motto "i mostri sono loro", potendo così rimanere sostanzialmente uguali, senza tentare minimamente un cambiamento delle nostre abitudini. Siamo tutti propensi a cambiare la società, gli altri, i governi ma difficilmente sentiamo una responsabilità personale sulla nostro situazione. Oppure, spesso si fanno denunce senza proporre qualche soluzione efficace come se, la semplice consapevolezza sia in grado, da sola, di cambiare qualcosa. E' mia opinione che un cambiamento seppur minimo possa avvenire attraverso un lavoro su noi stessi e in quei contesti, come la scuola, che possono permettere di portare a compimento la "chiamata personale" degli individui, facendosi promotrice di una società più sana e democratica. Per questo credo sia importante concentrarsi non tanto sull'aspetto esclusivamente razionale o nozionistico, ma sulla possibilità che ogni soggetto possa divenire ciò che è, in modo da tendere ad uno dei bisogni fondamentali dell'uomo: la propria autorealizzazione.


Motivazioni e attribuzioni del sé

Uno dei presupposti fondamentali di ogni sistema educativo, ciò che dovrebbe stare a cuore ad ogni insegnante, è rendere le persone in grado di utilizzare le proprie capacità al meglio, e capire di quali potenzialità siano dotate. Al di là delle retoriche, dovremmo chiederci se il compito del sistema educativo sia quello di “riempire” di concetti gli studenti, di renderli funzionali esclusivamente al mondo del lavoro, come se fossero automi senza emozioni, aspirazioni e sentimenti. Lo scopo dell'educazione non può quindi prescindere dalle esigenze di autonomia, benessere, dagli interessi personali, dai desideri, dalle aspirazioni e dai bisogni del soggetto. Una struttura scolastica più umana non può prescindere da tali importanti variabili, e una società consapevole e più funzionale dovrebbe favorire, a mio avviso, l'auto-realizzazione delle persone.
All'interno del sistema scolastico si tende generalmente sostenere miglioramenti di tipo quantitativo usando strumenti come i giochi educativi e i modelli didattici. Senza tenere conto che tali strumenti, da soli, non possano garantire un adeguato apprendimento. La visione che accomuna la mente dell'uomo ad un semplice elaboratore di informazioni, non contempla gli aspetti motivazionali del soggetto e non tiene nella giusta considerazione l'esistenza di un comportamento motivato e di un comportamento passivo. Per capire meglio ciò, si può fare riferimento alla teoria dell'autodeterminazione di Deci e Ryan (1985) basata su una scala motivazionale che va dal gradino più basso a quello più alto.
Nel primo scalino abbiamo il livello più basso di motivazione, quello meno “sentito”, rappresentato dal senso di dovere, caratterizzato da un comportamento di tipo obbligatorio, in cui la motivazione è avvertita come determinata dall'esterno (motivazione estrinseca). In questo caso il soggetto agisce ed è regolato in base ad un sistema di premi e punizioni tipica impostazione delle teorie comportamentistiche, di cui Skinner ne è il rappresentante più emblematico.
All'altro polo invece abbiamo la massima motivazione, ovvero l'obbiettivo viene percepito come parte di sé ed è importante per la propria formazione (motivazione intrinseca), (Moé, 2010).
Molto spesso “l'istruzione” sembra associarsi alla motivazione e viene subita piuttosto che essere percepita come fonte di crescita e di miglioramento del sé. Il sistema educativo privilegia, come fu rilevato da Rogers , l'adeguamento degli studenti alle richieste dell'istituzione piuttosto che la promozione del pensiero autonomo, critico e divergente.
L'identificazione tra educazione e valutazione e la concentrazione eccessiva e ossessiva sugli aspetti nozionistici (come se questi da soli esaurissero il compito educativo) diverge da ciò che Rogers ad esempio propone, ossia di focalizzare le risorse formative sulle tecniche di appropriazione di adeguati strumenti euristici e procedurali (Bruzzone, 2007). Questi strumenti permettono di giungere alla scoperta di nuove teorie, alla risoluzione di problemi, grazie all'uso dell'intuito e alla capacità prettamente umana di utilizzare “scorciatoie” che permettono di immaginare situazioni nuove e giungere a soluzione creative.
E' interessante evidenziare, a questo proposito, l'importante contributo di Gardner (1987) che fornisce una visione meno monolitica dell'intelligenza. Egli critica la visione classica dell'intelligenza come immutabile e unipolare, dove i test del QI la fanno da padrone, individuando sette “talenti” differenti. Lo studioso, opponendosi alla mentalità che divide le persone in due categorie distinte (intelligenti e non), estende la classica concezione dell'intelligenza, quella verbale e quella logico-matematiche, aggiungendo altri cinque attitudini. Tra queste egli include la capacità spaziale, ossia l'abilità di percepire e rappresentare gli oggetti visivi anche in loro assenza, tipica degli artisti; le abilità interpersonali tipiche di coloro che sono capaci di comprendere gli altri, di entrare in empatia e di percepire gli stati d'animo altrui; l'intelligenza intrapersonale ovvero quell'abilità che permette di conoscere se stessi, utile ad avere una crescente autoconsapevolezza; quella cinestetica rilevabile principalmente nella padronanza e coordinazione dei movimenti del corpo e infine l'abilità musicale consistente nel riconoscere variazioni di tempi, timbri e toni.

L'importante distinzione di Gardner permette di focalizzare meglio uno dei compiti formativi di maggior rilevanza. Un evento formativo che possa ritenersi significativo non può prescindere dal dedicare forze e impegno alla comprensione delle attitudini che ogni individuo possiede. Non può esimersi perché, capire l'insieme dei talenti propri di una persona, è essenziale per favorire lo sviluppo soggettivo e la capacità di esprimersi in base alle proprie caratteristiche.
Si è assistito, con l'avvento della tecnica, ad uno sviluppo inimmaginabile della tecnologia che ha inevitabilmente posto in secondo piano le capacità interiori in quanto difficilmente misurabili. Oggi in realtà si rileva un nuovo interesse per tutto ciò che riguarda genericamente l'anima, i sentimenti e le emozioni, anche se è utile scorgere in tali aspetti una valorizzazione di stampo prevalentemente consumistico.
Se abbiamo incrementato la scienza fino a spingerci a livelli impensabili per l'uomo pre-moderno, per quanto riguarda la formazione umana e la sua personalità egual sviluppo non è avvenuto. La personalità, che si forma necessariamente nell'interazione sociale, subisce di conseguenza l'imperante l'influenza della sofistificazione tecnologica. Il mancato progredire di queste due polarità non può che creare degli squilibri nell'integrità umana.
Come rileva Rogers: “lavoriamo assiduamente per liberare l'enorme energia dell'atomo e il nucleo dell'atomo. Se non dedichiamo altrettanta passione- e anche altrettanto denaro- alla liberazione delle potenziali capacità individuali, la grande discrepanza fra il livello delle nostre risorse fisiche e quello delle nostre risorse umane ci destinerà a una distruzione meritata e universale” (Bruzzone 2007).
Capire e incentivare l'autonomia realizzativa permette l'affrancarsi dalla necessità di essere guidati (eterodiretti) e consente di prendere coscienza delle proprie possibilità e di sviluppare la necessaria padronanza per essere liberi dai condizionamenti che operano come pressioni esterne. Non è un caso che l'opinione altrui abbia così forza sull'uomo sociale e che le varie manipolazioni a cui siamo soggetti con i mass media condizionino in modo significativo il nostro comportamento. Questa vera e propria manipolazione viene chiamata da David Riesman (1950) eterodirezione che definisce: “un atteggiamento attivo nella ricerca della conformità”.
L'insegnamento scolastico non può prescindere dalla formazione umana intesa nel suo complesso e da un educazione che permetta e incoraggi la presa di coscienza delle peculiarità personali. La consapevolezza del proprio sé consentirebbe (ipoteticamente) autonomia dal giudizio altrui e renderebbe possibile concentrare le energie sulle modalità d'apprendimento e non solo su contenuti e nozioni, fornendo agli individui l'opportunità di imparare ad imparare. Questo approccio suggerisce di adottare e di utilizzare tecniche diverse d'apprendimento a seconda degli stili cognitivi, delle abilità possedute e dalle specifiche modalità d'apprendimento degli alunni, riportando il soggetto discente al centro del percorso educativo. In quest'ottica l'aspetto valutativo ha la sua importanza ma solo come strumento utile a misurare un percorso di crescita.
Occorre sottolineare a questo proposito, che la percezione del voto scolastico ha un importanza particolare. E' importante evidenziare come gli studenti avvertano questo feedback in maniera diversa; alcuni, ad esempio, percepiscono il voto come una valutazione sulla persona e vivono il compito come una conferma della loro intelligenza o della loro inettitudine.
Carol Dweck (2007; p. 19) definisce questo stile: la teoria dell'intelligenza come entità, ovvero il percepire le proprie capacità cognitive similmente ad un tratto fisso che non può cambiare perché giudicato immodificabile.
La studiosa definisce invece coloro che possiedono una visione meno stereotipata dell'intelligenza come orientati alla padronanza. Per questi soggetti l'intelligenza è tutt'altro che un tratto fisso ma qualcosa che è possibile modificare e incrementare nel tempo. Essi focalizzano gli sforzi sul lavoro, sull'uso di strategie diverse, sull'impegno e sulla conseguente previsione d'imparare qualcosa che li farà crescere.
Un insegnante funzionale dovrebbe necessariamente fornire una prospettiva di miglioramento e sviluppo delle abilità preesistenti.
Ciò si configura come un compito gravoso per il fatto che comunemente si è abituati a concepire l'intelligenza come un tratto fisso e poco modificabile.
Naturalmente questo dipende dal tipo d'educazione impartito dai genitori e ritengo che l'immaginario comune sia sostenuto da credenze che concedano troppa fiducia ai test che misurano il QI.
Carol Dweck (2007) come abbiamo visto, ha individuato due teorie del sé, relative a come gli studenti percepiscono la propria intelligenza: la teoria dell'entità e quella incrementale.
La prima categoria si limita generalmente a dimostrare agli altri e a se stessi, di essere capaci impegnandosi in compiti che (per predisposizione) confermino le abilità possedute. Ciò presuppone che difficilmente, la persona con tale concezione, si impegnerà in compiti complessi o ritenuti tali perché le sfide sono ritenute una minaccia all'autostima.
La seconda categoria percepisce la propria intelligenza sostanzialmente flessibile perché non avvertita come un tratto fisso pertanto, grazie all'impegno, è possibile incrementarla e raggiungere gli obiettivi agognati.
Essi risultano meno preoccupati nel risultare intelligenti e capaci e si concentrano maggiormente sull'obbiettivo d'imparare qualcosa di nuovo in funzione di un aumento della loro padronanza.
Sotto l'impulso della padronanza le persone raccolgono le energie nel cercare strategie capaci di superare le difficoltà, aumentare le competenze e padroneggiare compiti ogni volta più complessi.
Per questi individui perciò l'eventuale insuccesso rappresenta una sfida che può, se superata, condurre ad una grande gratificazione. I possessori di una teoria dell'entità, per l'autrice maturano quella che definisce un “impotenza appresa” ossia un tipico atteggiamento che un nutrito numero di studenti hanno verso le difficoltà e gli insuccessi. In questi casi un compito complesso richiama reazioni votate a sminuire le proprie capacità intellettive.
I soggetti di questa categoria tendono a denigrarsi o autosabotarsi per conservare la propria autostima. Per loro gli obiettivi preminenti sono quelli che permettono di ottenere giudizi positivi sul proprio operato evitando, se possibile, quelli negativi.
Da queste considerazione si può dedurre che la differenza tra i due stili è dettata da ciò che gratifica maggiormente: se la gratificazione è estrinseca e contrassegnata dall'importanza data al giudizio altrui o dalla possibilità di ricevere dei premi, si ha uno stile entitario.
Nell'altro caso la soddisfazione nasce da un bisogno interiore, contrassegnato dal sentirsi in grado di superare gli ostacoli, acquisire sempre maggior capacità e sono definibili come possessori di uno stile orientato alla padronanza.
La psicologa, attraverso le sue ricerche, ha constatato che la differenza tra i due stili sia da imputare al significato che le due diverse categorie assegnano all'impegno.
Per gli “entitari” l'impegno è sintomo di mancanza di abilità e l'intelligenza si dimostra quando i problemi e i compiti vengono risolti nel più breve tempo possibile.
Per gli incrementali invece l'impegno è la condizione necessaria per ottenere dei successi e la consapevolezza di come solo attraverso di esso si possa crescere.
Dweck dimostrò in classe questa ipotesi per mezzo di test matematici. Individuò un sufficiente numero di studenti che provenivano da ripetuti insuccessi scolastici e che svilupparono una risposta d'impotenza di fronte alle difficoltà. Suddivise gli alunni in due gruppi uguali. Al primo, fu assegnato un docente che focalizzasse maggiormente l'attenzione sui successi favorendone l'ottenimento.
Invece il secondo gruppo ricevette un insegnamento definito “attributivo”. I professori spingevano i loro studenti a capire le cause dei successi o degli insuccessi e veniva premiata la profusione dedicata all'impegno.
Dweck constatò in poche sessioni che i soggetti indirizzati ad attribuire le cause all'impegno, potevano concentrarsi maggiormente sul compito ottenendo risultati di volta in volta migliori.
Al contrario i componenti del gruppo “orientato alla prestazione” continuava a dedicare un attenzione maggiore ai successi e agli insuccessi,come conferma o meno della propria intelligenza, in questo caso quello che più importava loro era dimostrare le abilità possedute, palesando come la motivazione che li spingeva dipendesse più da fattori esterni.
La cosa sorprendente era la constatazione di come gli studenti del secondo gruppo, anche dopo l'esperimento, dimostravano in classe un desiderio d'imparare maggiore rispetto a prima, addirittura richiedendo più compiti.
Invece gli alunni del primo gruppo, anche se abituati al raggiungimento dei successi, dimostravano una persistenza di risposte negative quando affrontavano delle difficoltà, nonostante l'entusiasmo nel superare certi compiti mediamente difficili doveva in teoria indurli ad una maggior fiducia.
Il fatto sconfortante di questo modello è la constatazione di come il comportamento di questi soggetti non venga minimamente intaccato, rimanendo sostanzialmente uguale a prima.
Nel sistema educativo, sia genitoriale che scolastico, è purtroppo prevalente la tendenza ad assegnare un gran valore al successo ed a mistificare l'insuccesso. Tale comportamento, generalmente in buona fede, è tenuto spesso a fin di bene. Molti genitori, nel sostenere i loro figli, tendono a lodare l'intelligenza perché il senso comune ripercorre strategie che consentano di salvaguardare la fiducia nelle loro capacità credendo che un complimento, a differenza di una critica, possa infondere una miglior difesa al sé della persona.
Questo probabilmente è dovuto ad una concezione stereotipata delle lodi che vengono concepite come un rinforzo atto a superare le difficoltà.
Ma come provano gli studi succitati, le lodi alla persona tendono a renderlo dipendente dall'approvazione esterna, perché percepite come una conferma o meno del proprio valore.
A mio parere la loro azione inficia l'autonomia del giudizio personale poiché, dipendendo da una fonte esterna, diventa impossibile maturare una stima di sé indipendente.
Invero, come afferma la Dweck, il desiderio di confermare la propria intelligenza non crea le condizioni ideali per imparare qualcosa.
Anzi probabilmente tende a favorire l'emergere di sintomi negativi (quali l'ansia), che possono risultare un ostacolo al raggiungimento di certi obiettivi, siccome possono condizionare l'individuo ad agire in maniera sufficientemente funzionale.
Tale dinamica si ripresenta anche nelle aule scolastiche e riflette un modo di intendere l'educazione occupata a perseguire prevalentemente i risultati. L'individuo è valutato quasi esclusivamente in base alle prestazioni senza prevedere un percorso che lo conduca verso l'autonomia e lo sviluppo delle sue abilità.
Questa considerazione è avvalorata dalle ricerche svolte da Dweck sui due stili differenti e in proposito sembra che l'ambiente eserciti un ruolo fondamentale nel delineare un tipo di attribuzione rispetto all'altra.
E' doveroso introdurre altri studi come quelli condotti da Kagan e Snidman (citato in Dweck 2000) che hanno tentato di dimostrare, come possa il temperamento influenzare l'atteggiamento adottato nelle circostanze problematiche, è infatti possibile che una determinata indole dia risposte improntate al coraggio o alla timidezza ma non sembrano essere così importanti nel contrastare un cambiamento. Infatti queste caratteristiche innate, seppur influenti, non dovrebbero diventare determinanti come dimostrano gli esperimenti svolti successivamente della Dweck e i suoi collaboratori.
Essi dimostrano come critiche e lodi da parte dei soggetti educativi, condizionino pesantemente la tipologia di stile adottata, invece una critica rivolta all'impegno più che alla persona, permetteva di attendersi risposte da parte dei bambini più orientate alla padronanza. Non solo, esse confermavano la teoria sull'inefficacia di un uso scorretto della lode.
Infatti la lode è ritenuta comunemente un incentivo positivo per rinforzare la volontà, eppure sembrerebbe rappresentare un serio ostacolo nel processo formativo dei giovani. Questo perché tenderebbe a giudicare più il complesso della persona piuttosto che l'impegno.
La ricerca condotta da Dweck e Kamins (citato in Dweck,2000) in una scuola materna è tesa a dimostrare tre scuole di pensiero in rapporto al modo d'educare con tre tipologie di feedback diversi utilizzati.
Ella divisero i bambini in tre gruppi. Nel primo gruppo la maestra esprimeva un feedback che indirizzava gli scolari all'uso di strategie differenti.
Nel secondo gruppo l'attenzione era rivolta a rilevare un comportamento adatto, chiamato “feedback sul risultato”.
Infine col terzo gruppo si voleva constatare in che modo una critica sul complesso della persona (feedback sulla persona) influisse sul comportamento successivo.
I risultati hanno confermato sostanzialmente le scoperte precedenti, che confermavano quanto la critica incentrata sulle strategie producesse risultati più soddisfacenti. Quest'ultima tecnica infatti tende a favorire maggiormente un'emancipazione dei bambini perché permette di usare metodi di risoluzione dei problemi in maniera più profonda ed elaborata.
In tal ambito veniva dato maggior risalto all'impegno e al lavoro come mezzi indispensabili ad acquisire padronanza.
Per quanto riguarda il terzo gruppo viceversa si rilevavano le risposte peggiori rispetto agli altri due: si evidenziò come gli allievi conseguirono una maggior sfiducia nelle proprie capacità allorquando si palesavano delle difficoltà e manifestando risposte di impotenza e sentimenti fortemente negativi.
Il feedback sulla persona sembra pertanto annoverare risultati negativi in quanto agisce come un giudizio sulla persona. Gli individui che sviluppano una teoria dell'entità sembrerebbero, visti questi risultati, quelli più fragili.
Questa tipologia di persone, interiorizzerebbero dai genitori che il loro valore è sotteso da un buon comportamento oppure dall'ottenimento di buoni risultati scolastici. Per ottenere il loro amore però rinuncerebbero alla specificità che li caratterizza, con la conseguenza a conformarsi ai desideri dei genitori compiacendoli con comportamenti desiderabili.
Le istituzioni scolastiche forse dovrebbero tenere in dovuta considerazione questi aspetti.
Un progetto educativo dovrebbe occuparsi innanzitutto di modificare le false credenze degli individui, le loro convinzioni demotivanti e utilizzare strategie in grado di far acquisire la necessaria padronanza delle loro abilità agli studenti.
Personalmente sono sostenuto dal convincimento che ogni persona sia una combinazione inimitabile di ricchezze, abilità e capacità e credo nella necessità di concepire un educazione interessata a riconsegnare all'individuo la possibilità di compiere la sua “chiamata”.
La conseguenza di ciò è l'affiorare di un essere umano più soddisfatto di sé e forse potrebbe ottimisticamente contribuire al miglioramento della convivenza sociale dal momento che, la sua partecipazione al bene comune, contribuirebbe verosimilmente a trovare un senso alla sua vita.
Probabilmente mai come oggi l'uomo, inserito in un sistema spersonalizzante, sente più forte questa esigenza, tuttavia esprimere se stessi e partecipare attivamente alla vita comunitaria, sentendosi utili, darebbe un maggior significato all'esistenza umana.
I programmi scolastici a mio avviso dovrebbero contemplare una formazione dei professionisti aggiornati sulle nuove ricerche e in grado d'indirizzare gli studenti verso gli obiettivi più utili per loro.
Così come ha dimostrato Dweck è possibile ottenere risultati migliori per gli studenti, contemplando modalità educative alternative ai modelli che vanno per la maggiore, ella infatti ipotizza che gli studenti orientati alla padronanza e quelli orientati all'impotenza abbiano sostanzialmente obiettivi differenti.
Ciò può prevedere un risalto maggiore alle motivazioni, come costrutto fondamentale indispensabile all'apprendimento.
Far nascere una motivazione sentitamente intrinseca, risulta quindi premessa indispensabile per favorire un orientamento alla padronanza.
La prassi potrebbe essere quello di riportare ( nei casi dei soggetti con motivazione estrinseca) il controllo decisionale dall'esterno verso l'interno consentendo perciò di creare le condizioni affinché un soggetto possa autodirigersi efficacemente.
La distinzione tra motivazione estrinseca ed intrinseca è importante sotto quest'ottica ma non completamente esaustiva. White (citato in De Beni, Moè, 2000) infatti estende il concetto di motivazione intrinseca, dimostrando in quale modo la curiosità e il bisogno di esplorazione non siano semplicemente la soddisfazione di un desiderio, bensì la volontà di padroneggiare e controllare l'ambiente per sentirsi efficaci e competenti.
Tale esigenza viene nominata effectance, un bisogno che convalida la tesi della motivazione intrinseca, in quanto si manifesta spontaneamente anche in assenza di rinforzi, addirittura nel caso in cui il comportamento venga punito. Conseguentemente la bassa percezione di sentirsi capaci può far sentire il bambino come controllato dall'esterno facendo diminuire la motivazione all'effectance.
In proposito Harter (citato in De Beni, Moè, 2000) ha proposto una teoria interessante ipotizzando che qualora il bambino venga sostenuto già ai primi tentativi di padronanza ottenendo rinforzi positivi, tende a sviluppare una maggiore emancipazione in proiezione futura da questi feedback esterni. Esso infatti tende ad interiorizzarli, diventando autonomo dall'approvazione altrui.
Al contrario se il bambino viene scoraggiato o non sostenuto in questi primi tentativi di competenza, egli sentirà il bisogno di continue approvazioni esterne, sviluppando in questo caso, un tipico atteggiamento che Dweck definirebbe entitario.

Conclusioni

Queste riflessioni sullo sviluppo della motivazione intrinseca possono risultare fondamentali per un insegnante. Ma un ruolo fondamentale lo svolgono i genitori rimasti in gran parte ancorati ad un sistema di stampo pavloviano che prevede sostanzialmente i classici premi e punizioni per regolare il comportamento.
Il sistema scolastico forse, dovrebbe farsi portavoce e tramite di un educazione più consapevole dove gli insegnanti, in sinergia con i genitori, si occupassero di questi aspetti, visto che la responsabilità educativa non può esaurirsi esclusivamente negli edifici scolastici.
Di conseguenza se venissero concentrate più energie verso un emancipazione vera, i futuri adulti avrebbero maggiori possibilità di cercarsi un benessere duraturo non solo materiale ma anche psicologico e spirituale.

Una motivazione interiorizzata può essere ottenuta nell'eventualità che l'ambiente sociale favorisse la giusta indipendenza e un rinforzo dell'autonomia. Essa sarebbe inizialmente sostenuta con rinforzi adeguati da parte dei soggetti educativi e una volta appresi farebbero parte del bagaglio di conoscenze dell'individuo, finalmente indipendente da sostegni esterni perché comprenderebbe come premiarsi e punirsi.

Wiggins (1990) infine invita ed auspica ad un cambio di prospettiva: “Si tratta di accertare non ciò che lo studente sa, ma ciò che sa fare con ciò che sa”.
Queste prospettive possono gettare le basi per un processo educativo più centrato sulle abilità e caratteristiche dell'allievo. Sentendosi al centro dell'interesse e maggiormente responsabilizzato, l'individuo può essere più motivato a seguire un percorso di crescita, se percepisce l'insegnante come un sostegno capace di guidarlo alla sua "individuazione". Oltre ad essere meno assoggettato alla pervasività di una valutazione fine a se stessa, l'allievo è accettato per quello che è per le peculiarità e potenzialità, in un processo che ha come scopo finale il disvelamento della sua identità.


Bibliografia



Bruzzone D. (2007). Carl Rogers. La relazione efficace nella psicoterapia e nel lavoro educativo. Roma: Carocci.

Deci, E.l. Ryan R.M. (1985). Intrinsec motivation and self determination in human behavior New York: Plenum Press.

De Beni R., Moè A. (2000). Motivazione e apprendimento. Trento:Il mulino

Dweck C. S. (2007). Teoria del sé. Intelligenza, motivazione, personalità e sviluppo. Trento: Erikson.

Gardner H. (1987). Formae Mentis. Saggio sulla pluralità dell'intelligenza. Milano: Feltrinelli.

Moè A. (2010). la motivazione. Bologna: Il Mulino.

Riesman, D. (1950). La follia solitaria. Bologna. Il Mulino.

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