lunedì 12 dicembre 2011

COSTRUIRE UN’ECONOMIA SALVA VITE, SALVA NAZIONE, SALVA DEMOCRAZIA.



Da quando scrivo su questo blog mi sono imposto di pubblicare solo lavori frutto del mio sforzo. Non amo essere il megafono di qualcuno, per quanto autorevole, siccome ciò che mi preme maggiormente è diventare ciò che sono, nella consapevolezza che l'unica via per diventare esseri umani sani ed integrati sia quella di abbracciare la propria chiamata personale. Tuttavia in questo caso faccio mio l'appello di Paolo Barnard. La sua encomiabile passione ed abnegazione nel lavoro da giornalista di inchiesta non retribuito ma soprattutto l'urgenza dei temi trattati, richiedono una diffusione il più possibile capillare:

COSTRUIRE UN’ECONOMIA SALVA VITE, SALVA NAZIONE, SALVA DEMOCRAZIA.
Gli economisti della Modern Money Theory in Italia per formare il primo gruppo di attivisti della MMT contro lo scempio del Colpo di Stato Finanziario.
Sono Paolo Barnard. Ho deciso che è assolutamente vitale chiamare in Italia il gruppo fondatore della Modern Money Theory (MMT) per un summit di due giorni dedicato a chiunque sia intenzionato a divulgare la MMT come politica economica nazionale salva vite, salva nazione e salva democrazia.
Il perché: La MMT è oggi probabilmente l’unico strumento esistente di scienza economica e sociale che è in grado di sventare il colpo di Stato finanziario Neoclassico, Neomercantile e Neoliberista che, particolarmente nell’Europa dell’Eurozona, ha posto fine di fatto alla democrazia. E’ in gioco il destino reale di milioni di famiglie, di centinaia di migliaia di aziende, e dell’Italia stessa nella sua esistenza democratica. L’urgenza è massima, l’Eurozona è al collasso, pochi immaginano oggi le tragiche conseguenze decennali di questo disastro criminoso.
A chi è dedicata l’iniziativa: La MMT sta fiorendo su blog, siti, pubblicazioni come mai prima, in parte per opera del mio lavoro e in parte col contributo di altri attivisti. La MMT è osteggiata come nemico letale dalle elite politico-economiche dominanti, per i motivi da me spiegati ne Il Più Grande Crimine. Esse tenteranno ogni strada per soffocare la MMT in Italia e nel mondo. Se gli attivisti e i bloggers diffonderanno la MMT in modo approssimativo e non fedele alla sua scientificità, le elite avranno un’arma micidiale per screditarci, e sarà la fine. Motivo per cui io, e il gruppo di economisti americani leader della MMT, abbiamo deciso di indire un summit nazionale di due giornate dove tutti gli attivisti, bloggers, e cittadini intenzionati a promuovere la MMT potranno recarsi per ottenere dalla fonte più autorevole al mondo una infarinatura essenziale e completa su: MMT – Perché e come siamo caduti vittime del Colpo di Stato Finanziario – Crisi dell’Euro e soluzioni per l’Italia – Crisi Finanziaria, chi sono i criminali e come prevenirle – Costruire uno Stato sovrano che tuteli i cittadini con piena occupazione e pieno Stato Sociale, piena ricchezza produttiva e accesso alla democrazia vera. Essere competenti è vitale. Un volantino ufficiale sarà postato su questa pagina appena possibile.
I docenti: Saranno i Professori L. Randall Wray, Stephanie Kelton, Warren Mosler, Marshall Auerback e (da confermare) William Black, i cui CV accademici sono pubblicati in calce. Paolo Barnardcurerà la lezione sul colpo di Stato finanziario Neoclassico, Neomercantile e Neoliberista.
Il luogo e date: Un hotel con centro conferenze in zona Umbria-Toscana per essere raggiungibili da nord e sud Italia; alternativamente un campus universitario nella stessa area, da decidere. Date da decidere, ma il prima possibile (tutto sarà comunicato su questa pagina).
Come funziona: I docenti non chiedono parcelle, ma solo rimborsi spese. Tuttavia le spese sono molto elevate (hotel, sala, traduttori simultanei professionisti d’economia, voli, trasporti ecc.). Chi desidera partecipare dovrà pagare una quota. La quota per le due giornate sarà di 40 euro (escl. vitto e alloggio dei partecipanti, che si auto organizzeranno). Calcolerò il budget complessivo dell’evento (che vi verrà reso noto) e lo dividerò per 40. Il numero risultante sarà il numero minimo richiesto di adesioni per lanciare l’organizzazione. Si aderisce scrivendo una mail apaolo.barnard@yahoo.it, con questa intestazione tassativa:summit nazionale MMT in ItaliaOgni altra mail sarà ignorata. La mail dovrà contenere SOLO il nome e cognome del partecipante con data di nascita e null’altro, no mail con nomi multipli (1 mail 1 nome), no nicknames, no lettere o richieste di spiegazioni. Al raggiungimento del numero minimo necessario, pubblicherò la lista piena dei nomi su questa pagina del mio sito. Se le adesioni saranno ampiamente in eccesso della capacità di ospitare i partecipanti, valuteremo se chiudere le iscrizioni o indire un secondo evento.
Gli aderenti dovranno poi versare l’importo per intero su un c/c da definire e che sarà comunicato qui in futuro. Al completamento dei versamenti necessari a coprire le spese vive, l’organizzazione diverrà concreta. Se non sarà raggiunto il numero sufficiente, il denaro verrà donato sotto diretta supervisione del Prof. L. Randall Wray (e rilascio di documentazione relativa) a studenti bisognosi che fanno ricerca su MMT all’Università del Missouri Kansas City (UMKC) e che rischiano l’abbandono degli studi per ristrettezze economiche*. Idem per ogni cifra raccolta in eccesso del necessario. La verifica della correttezza di tali eventualità è di facile attuazione, dato che il numero di aderenti è pubblico e il calcolo della cifra donata è ovvio a fronte del budget originario da me pubblicato.
Ulteriori partecipanti: E’ lasciata libera iniziativa agli aderenti di divulgare l’evento a partiti, gruppi, singoli, media, amministratori pubblici ecc. Tutti costoro, tuttavia, saranno tenuti a iscriversi con relativa quota di partecipazione. Ma attenzione: SI SPECIFICA CHE L’EVENTO E’ ESCLUSIVAMENTE PER APPRENDERE LA MMT, E NON PER DIBATTERE DI ALTERNATIVE POLITICHE O ECONOMICHE AD ESSO. NON SARA’ PERMESSO IL DIBATTITO AD ALCUNO SE NON SULL’APRENDIMENTO DELLA MMT. QUESTO NON SARA’ UN DIBATTITO PUBBLICOMA UN SUMMIT SU UN TEMA SPECIFICO, LA MMT.
Questo perché le poche ore disponibili nelle due giornate saranno interamente prese dalle lezioni dei docenti e dalle domande pertinenti alla MMT degli iscritti.Abbiamo poco tempo e pochi mezzi, purtroppo.
Sponsor: Sponsor istituzionali (Comuni, Province ecc.) e privati (aziende, singoli) sono ben accetti, a patto che sia chiaro che non sarà permesso alcun patrocinio di colore politico o confessionale. Chi trova uno sponsor lo può comunicare alla medesima mail con intestazione tassativa: sponsor summit MMT.
* (In America ci sono studenti che letteralmente vivono coi bollini per le mense dei poveri e tentano lo stesso di studiare. Wray e colleghi li aiutano come possono.)
I CV accademici dei docenti americani:
L. Randall Wray is a Professor of Economics at the University of Missouri-Kansas City and Senior Scholar at the Levy Economics Institute of Bard College, NY. A student of Hyman P. Minsky, Wray has focused on monetary theory and policy, macroeconomics, financial instability, and employment policy. He has published widely in journals and is the author of Understanding Modern Money: The Key to Full Employment and Price Stability (Elgar, 1998) and Money and Credit in Capitalist Economies (Elgar 1990). Wray received a B.A. from the University of the Pacific and an M.A. and Ph.D. from Washington University in St. Louis. He has served as a visiting professor at the Universities of Rome and Bologna in Italy, the University of Paris, and UAM and UNAM in Mexico City.

 Stephanie KeltonPh.D. is Associate Professor of Economics at the University of Missouri-Kansas City, Research Scholar at The Levy Economics Institute and Director of Graduate Student Research at the Center for Full Employment and Price Stability. She is creator and editor of New Economic Perspectives. Her research expertise is in: Federal Reserve operations, fiscal policy, social security, health care, international finance and employment policy.  Follow her at twitter.com/deficitowl.
Warren Mosler, Co-Founder and Distinguished Research Associate of The Center for Full Employment And Price Stability at the University of Missouri in Kansas City. CFEPS has supported economic research projects and graduate students at UMKC, the London School of Economics, the New School in NYC, Harvard University, and the University of Newcastle, Australia.
Marshall Auerback has over 28 years of experience in investment management. He is currently a portfolio strategist with Madison Street Partners, LLC, a Denver based investment management group, a Fellow with the Economists for Peace and Security, and a Research Associate for the Levy Institute. He is a frequent contributor to New Economic Perspectives.
William Black, J.D., Ph.D. is Associate Professor of Law and Economics at the University of Missouri-Kansas City. Bill Black has testified before the Senate Agricultural Committee on the regulation of financial derivatives and House Governance Committee on the regulation of executive compensation. He was interviewed by Bill Moyers on PBS, which went viral. He gave an invited lecture at UCLA's Hammer Institute which, when the video was posted on the web, drew so many "hits" that it crashed the UCLA server. He appeared extensively in Michael Moore's most recent documentary: "Capitalism: A Love Story." He was the subject of featured interviews in Newsweek, Barron's, and Village Voice.

domenica 27 novembre 2011

Questo video l'abbiamo girato il 18 novembre a Genova in un incontro col famoso giornalista d'inchiesta paolo Barnard.  Questa è la prima parte del video:    


martedì 4 ottobre 2011

storia e propaganda delle liberalizzazioni in Italia



Recentemente il ministro Tremonti ha presentato il suo piano per salvare l'Italia dal debito, principalmente, svendendo i beni pubblici. Questa ricetta apparentemente innovativa ha in realtà origine ben precise che tenterò di spiegare, facendo menzione di alcuni eventi internazionali che influirono sull'economia italiana.


Lo sviluppo dell'economia dopo la Seconda guerra mondiale

Nel 1944 i potenti della terra si riunirono nella cittadina americana di Bretton Woods per istituire e regolare il mercato e per evitare il disastro della grande depressione del '29.
Gli accordi prevedevano l’istituzione del dollaro come moneta di riferimento (a scapito della sterlina) e la sua convertibilità con l'oro, in modo che fosse garantita da un bene materiale universalmente riconosciuto. Ovviamente tutte le altre valute nazionali dovevano adeguarsi a questo parametro di riferimento. Suddetto sistema dava la possibilità di regolare la convertibilità delle singole valute nazionali con un sistema di cambio che non permettesse grandi oscillazioni. Ciò consentì alle economie più deboli di emergere e in l'Italia si assistette, com'è noto, al grande boom economico.
 Ben presto però gli Stati Uniti cominciarono a non rispettare i patti di stabilità della convertibilità della loro moneta con l’oro. Infatti solo dopo due decadi le riserve auree dello stato americano erano arrivate ad un quinto della moneta circolanteIn questo contesto l' amministrazione Nixon decise con un atto unilaterale, il 15 agosto del 1971, di sopprimere la convertibilità dell’oro in dollari, decretando così la caduta di uno dei pilastri di Bretton Woods; ciò permise all'apparato industriale e multinazionale americano di agire con maggiore libertà nell'economia mondiale.
Le conseguenze di questo atto sono ben spiegate dall'analisi di Noam Chomsky:

Gli accordi di Bretton Woods miravano a controllare il flusso dei capitali. Nel secondo dopoguerra, quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno creato questo sistema, c’era un gran desiderio di democrazia. Il sistema doveva preservare gli ideali sociali democratici, in sostanza lo Stato previdenziale. Per farlo occorreva controllare i movimenti di capitali. Se li si lascia andare liberamente da un paese all’altro, arriva il giorno in cui le istituzioni finanziarie sono in grado di determinare la politica degli Stati. Costituiscono quello che viene chiamato “Parlamento Virtuale”: senza avere un’esistenza reale, sono in grado di incidere sulla politica degli Stati con la minaccia di ritirare i capitali e con altre manipolazioni finanziarie.[...] Così in tutto il mondo, si assiste da allora a un declino del servizio pubblico, alla stagnazione o al calo dei salari, al deterioramento delle condizioni di lavoro, all’aumento delle ore lavorative.” (1)

Questo evento fu probabilmente origine delle liberalizzazioni, che sotto l'egida di una  maggior efficienza, produsse innumerevoli cambiamenti specialmente nello stato italiano. Difatti a partire dagli anni 80 si diede avvio ad una crescente privatizzazione delle imprese pubbliche e le prime smobilitazioni furono quelle riguardanti le banche. Dal 1936 esse conservavano un assetto di separatezza tra istituti bancari e industria costituendo anche l' importante funzione di controllo dell'economia privata e delle banche ad indirizzo commerciale e privatistico. La smobilitazione della Banca d' Italia avviene precisamente nel 1981 quando, a seguito del mancato rispetto degli accordi di Bretton Woods,  il paese rientra nella sfera di influenza del Fondo Monetario Internazionale, promotrice di una politica scellerata contrassegnata da una riduzione della spesa pubblica e  dalla apertura delle frontiere per la circolazione dei capitali.(2).

In tal contesto la banca nazionale italiana viene nettamente separata dal tesoro, ministero adibito al controllo pubblico della moneta e in questo modo i tassi di sconto non sono più decisi dallo Stato ma dalle leggi di mercato. Siffatto evento sarà propedeutico alla trasformazione della Banca in società per azioni (SPA) nella seconda metà degli anni '90 e il successivo abbandono della moneta Italiana a favore dell'euro.

Dalla fine degli anni '80 comincia lo smantellamento dei beni pubblici maggiori, considerati dei carrozzoni insostenibili per l' economia comune, che faranno rientrare (seppur nel breve periodo) consistenti somme di capitale, anche se, venduti a prezzi di ribasso. Infatti la motivazione principale di tale atto era l'enorme esposizione statale verso il debito pubblico. Per i proponenti vi sarebbe stata una maggiore liberalizzazione, con la possibilità per diversi gruppi imprenditoriali di partecipare all'acquisto di imprese, determinando una conseguente diminuzione dei prezzi. Con tale favola si lasciava intendere come i piccoli imprenditori potessero essere parte attiva all'acquisto ma  la promessa non ebbe gli effetti sperati. Se è pur vero che nel breve periodo, a seguito delle dismissioni, vi siano state entrate piuttosto consistenti , nel medio periodo invece non si rilevarono significativi incrementi. Anzi, a seguito di un rincaro dei prezzi, i servizi apportati sono continuamente e inesorabilmente peggiorati mentre le assunzioni hanno assunto l'aspetto di  una chimera irraggiungibile.

Quest'effetto, è stato provocato dall'instaurarsi di regimi monopolistici o al massimo oligopolistici non interessati a recitare una parte di reale concorrenza. Un rapporto del ministero dell'economia e della finanza del 2006 dimostrava un inesorabile fallacia della prospettiva paventata dalle liberalizzazioni come panacea di tutti i mali. La propaganda dei minori costi si scontra poi con i dati ufficiali del ministero:




2002      2003          2004        2005         2006

Aumento tariffe

+0,1      +0,9           +0,9         +1,5          +1,6

Aumento beni e servizi liberalizzati

 +3,8     +3,6           +2,6        +2,0           +1,9

Prezzi al consumo 

 +2,5      +2,7        +2,2        +1,9           +2,1 2  (3).


Anche la Corte dei Conti, in uno dei rapporti annuali redatto nel 2010, ha evidenziato come tali denazionalizzazioni abbiano prodotto, oltre che uno svuotamento delle casse sociali, un' aumento dei prezzi in numerosi settori come le tariffe legate all' acqua, al gas, alla luce e ai pedaggi autostradali (3).

Il progetto, approvato dal consiglio dei ministri il 30 dicembre del 1992, prevedeva lo smantellamento di storici cartelli pubblici dell'impresa italiana; tra questi basti citare fra gli altri, IRI, ENI, ENEL, IMI, BNL, INA, autostrade e il complesso dell'industria siderurgica. La seconda fase invece prevedeva, ancor'oggi in fase d' attuazione, la dismissione di importanti settori di interesse pubblico: ferrovie, sanità, previdenza sociale, gas luce e per ultima l' acqua. L’ ultimo atto approntato dal governo Berlusconi riguarda proprio il settore delle municipalizzate proprietarie delle condotte acquifere, che, col decreto Ronchi approvato alla camera il 19 dicembre 2009, hanno intaccato uno dei settori di maggior importanza per il bene comune, fortunatamente abrogato grazie al recente referendum popolare (4).

Analizzando la situazione industriale delle imprese pubbliche nel lungo periodo si nota, come fino agli anni settanta (quando è decaduta l' economia legata ai parametri di Bretton Woods) queste potevano vantare un esposizione al debito pubblico poco rilevante. Tal ipotesi è sostenutua da questo grafico:













In esso è possibile notare l' impennata del debito subito dopo gli anni 70 e la minore incidenza prima di tale periodo.
Altresì l'assunto di mobilitare un azionariato diffuso tra i piccoli risparmiatori non regge di fronte alla logica dei fatti. In realtà solo un terzo delle proprietà rientra in questo contesto.
Per inciso la propaganda riguardante il debito pubblico statale, non ha riscontri nei fatti; realtà produttive come l' IMI che poterono vantare un' attivo perdurante da almeno 60 anni furono svendute svuotando così le casse statali di importanti entrate (5). L' IMI svolgeva un' importante funzione sociale. Se durante la guerra si è adoperata nel finanziare e nel riattivare l' economie distrutte del mondo, in cooperazione con altre realtà mondiali, nel dopoguerra è stato finanziatore delle grandi industrie, piccole e medie imprese e  sostegno, sotto forma di prestiti, alla vacillante economia del mezzogiorno. Questa realtà, oltre a garantire un indotto considerevole per l' economia pubblica italiana, dava lavoro a moltissime famiglie.
In quel caldo periodo contrassegnato dalla vicenda di “mani pulite” si consolidarono eventi di rivoluzionari in grado di ribaltare la scena politica. Alcuni politici elevatisi alla ribalta nazionale, come il due volte premier Prodi, decretarono assieme a speculatori internazionali il destino dell' Italia. E' poco nota la vicissitudine assurta agli onori della cronaca come l’affaire Britannia, dal nome del panfilo, sede della riunione di capi di stato, economisti e capitalisti  dove, a largo delle coste siciliane il 2 giugno del 1992, si decretò la fine dello stato sociale e l’ avvio alle privatizzazioni. Oltre a Prodi, c' erano personaggi del calibro di Mario Draghi e Ciampi, rappresentanti di famiglie molto influenti come i Warburg, banche d' affari come Barclays e Goldman Sachs.
La storia dai contenuti spesso frammentari si é esplicitata soprattutto grazie a fonti indirette. Difatti gli organi di stampa ufficiali l'hanno si menzionata ma rivelando ben poco, specificandola tuttalpiù come un fenomeno avvolto da un alone di mistero.
Tangibilmente, inerente alla vicenda, vi sono state interrogazioni parlamentari di personalità congiunte agli schieramenti più disparati, sia di destra sia di sinistra, così come parlamentari legati alla vecchia DC. Tali appelli improntati a gettar luce su vicende d'essenziale interesse pubblico, rimasero sempre inascoltati dalla controparte governativa e contrassegnarono ciò che sarebbe diventata la condotta del potere da li a poco.
Anche negli ultimi anni la vicenda è stata riabilitata dal vituperato Brunetta che, in un convegno del Pdl a Cortina D' Ampezzo, esterna le seguenti affermazioni:
"Ve lo ricordate il Britannia? Se non ve lo ricordate", dice Brunetta, "ve lo ricordo io. Il Britannia è una nave, appartenuta già alla casa reale inglese, che navigò davanti alle coste italiane [...], ospitando dentro banchieri, grand commis dello Stato, esponenti vari della burocrazia... in cui si svolse un lungo seminario, durato un paio di giorni, in cui si trassero le linee della svendita delle aziende di stato italiane".


Non è da meno l' autorevole opinione di Sergio Romano che nel 2009, attraverso Il corriere della sera, rende manifesto il suo pensiero legato alla vicenda:
“ La crociera fu breve e pittoresca, con una orchestrina della Royal Navy che suonava canzoni nostalgiche degli anni Trenta e un lancio di paracadutisti da aerei britannici che si staccarono in volo da un incrociatore e scesero come stelle filanti intorno al panfilo di Sua Maestà. Fu anche utile? È difficile fare i conti. Ma non c’è privatizzazione italiana degli anni seguenti in cui la finanza anglo-americana non abbia svolto un ruolo importante.”
Verso Mario Draghi, altro personaggio dei poteri finanziari anglo- americani e attuale governatore della Banca d' Italia, si scagliò contro uno di quei personaggi della prima repubblica discusso per vicende spesso oscure della storia italiana: Francesco Cossiga. Egli dichiarò in diretta televisiva, di fronte ad un esterrefatto Luca Giurato,riguardo a Draghi “Un vile. Un vile affarista”, (ha detto Cossiga riferendosi ad una sua eventuale nomina a premier) “Non si può nominare presidente del Consiglio dei ministri chi è stato socio della Goldman & Sachs, grande banca d’affari americana. E male, molto male - ha aggiunto - io feci ad appoggiarne, quasi ad imporne la candidatura a Silvio Berlusconi; male molto male. È il liquidatore, dopo la famosa crociera sul Britannia, dell’industria pubblica, la svendita dell’industria pubblica italiana quando era direttore generale del Tesoro. Immaginati - ha concluso Cossiga - cosa farebbe da Presidente del Consiglio: svenderebbe quel che rimane, Finmeccanica, l’Enel, l’Eni”.
Queste parole scioccanti inducono a pensare come, sotto un apparente piano di salvataggio dei governi tecnici, vi fosse una strategia ben precisa condotta a svendere pezzi dell'Italia nelle mani di pochi speculatori.
La cosiddetta prima repubblica che tanto scalpore suscitò con la vicenda giudiziaria legata alle tangenti, è stata soppiantata nella sua fase iniziale, dai cosiddetti “governi tecnici.”
Da quell'incontro nel panfilo inglese diventarono protagonisti della scena politica principalmente personaggi italiani compiacenti ai poteri forti della finanza internazionale. Chi malediva la prima Repubblica come il male assoluto non si rese conto che, con tutte le malefatte, quei personaggi possedevano un senso dello stato e delle istituzioni che i politici successivi non poterono vantare.
Per questo il 1992 è stato uno degli anni peggiori per la storia dell'Italia e purtroppo solo adesso cominciamo a prenderne coscienza. Infatti con "mani pulite" che portò alla ribalta Di Pietro, su l' onda del coinvolgimento emotivo, gran parte della comunità civile si illuse che un nuovo corso politico e sociale potesse esserci.
Come abbiamo visto c' era chi, sfruttando la suggestione di quel periodo, ordiva un piano malefico per indebolire l'Italia dalle sue proprietà pubbliche. Non solo, il governo guidato dall'ex governatore della Banca d' Italia Carlo Azeglio Ciampi, rappresentante del mondo finanziario internazionale, (che come abbiamo visto spingevano per le liberalizzazioni dei beni pubblici) ebbe la brillante idea di sottoscrivere il cosiddetto “protocollo” assieme alle tre sigle sindacali di maggior rilievo, decretando la fine della scala mobile e instaurando la pratica della concertazione. Il risultato fu che la paga base non venivano adeguate in maniera automatica, su base annuale, ma grazie agli accordi sottoscritti da CGIL CISL UIL, una tantum.

Gli strascichi relativi a questa vicenda si sono propagati anche sul piano dialettico,con un stravolgimento del significato della parola. Nel tempo si è sviluppato un repertorio oratorio da far impallidire Orwell, autore del celebre romanzo 1984. Oramai è prassi sentire pronunciare frasi paradigmatiche, di questa paradossale situazione, quali “aumentare la produttività” che nella neo- lingua odierna significa dovete lavorare di più e meglio,“ tagliare la spesa pubblica” che nell'accezione moderna è: sempre meno servizi e conseguente riduzione dei diritti.



Fonti




1.  Www.Movisol.org
2.http://www.homolaicus.com/storia/oro/bretton_woods.htm
3.Fonte: Ministero dell’Economia e delle Finanze, L’economia italiana nel 2006, pag.35
4.Http//:www.economiaefinanza.it/cortedeiconti.html
5.http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Italia/2009/11/acqua-privatizzazione-decreto-ronchi.shtml
 6. Libro bianco sulle privatizzazioni, Ministero del Tesoro, del bilancio e della programmazione economica, 2001, pag. 32.




mercoledì 13 luglio 2011

Filosofia del libero mercato

Il presupposto filosofico del libero mercato, nasce come esigenza del capitalismo di esercitare un controllo diretto sull'economia. Alla base di ciò troviamo l' ideale utopico per cui, attraverso la maggiore competitività, ogni uomo grazie ad un controllo diretto dei propri capitali possa effettivamente produrre, grazie alle sue personali competenze, una maggiore ricchezza personale. Sarebbe bello, se ognuno potesse realizzare il proprio potenziale lavorativo in un sistema davvero concorrenziale. Purtroppo, dietro la propaganda liberista esiste un’ aspetto che non viene rimarcato ma volutamente occultato. Chi propugna pomposamente queste idee omette un punto essenziale e fondamentale: generalmente dietro tale ideale si celano grandi capitalisti che tendono ad accentrare risorse e potere sempre più nelle loro stesse mani e atti a creare dei veri e propri monopoli. Tutto molto scontato e risaputo ma è bene sempre rimarcarlo. Ipoteticamente si partisse tutti da zero si potrebbe forse generare una migliore propagazione del benessere anche se, è nell'essenza e nella natura del capitalismo la concentrazione della maggior quantità di beni nelle mani di un manipolo d'individui. Questo perché, fondamento della sua riuscita, è la competitività fra esseri umani. Tale concorrenza si traduce in effetti su un accentuazione dei più bassi istinti dell'essere umano, sostituendo i più elementari principi etici con i più rozzi e beceri interessi personali. A livello filosofico si potrebbe affermare che il potere, la voglia di prevaricare e accumulare, si impossessa dell'uomo rendendolo un fantoccio, una vittima della sua stessa natura predatrice. Invero coloro che pensano all'uomo come essenzialmente egoista, dimenticano che la base di moltissime società del passato, ma anche odierne, erano fondate su una visione più sociale della vita comunitaria. Un caso emblematico è quello dei Nativi americani. Senza volerli idealizzare, come spesso accade in certe derive New Age, molti nativi disponevano di una base democratica fondata sulla partecipazione di tutta la tribù alle decisione di interesse collettivo. Un esempio emblematico è quello degli indiani della costa Nord orientale (gli Irochesi) dove le decisioni politiche erano tenute da un consiglio formato dalla collettività dei clan e dove si discuteva, talvolta anche per giorni, fino a che tutti i partecipanti erano d’accordo. Si doveva in questo senso limare le proprie istanze, sino a che si giungesse ad una decisione che soddisfasse tutti. Ho citato il caso degli irochesi, ma questa base democratica era presente in molte società di quell'area culturale. Di estremo interesse è poi l' organizzazione sociale. A discapito dei luoghi comuni, generalmente le donne non erano sottomesse anzi, molto spesso la proprietà dei beni apparteneva alla famiglia delle donne, così come la gestione dei lavori agricoli. Invece l' organizzazione politica e la caccia competevano all'uomo. Come detto nel caso irochese, la donna nominava un uomo che si occupava degli interessi del proprio clan e la sua investitura poteva essere revocata in ogni momento se il suo apporto alla causa del clan non era utile. Addirittura alcune società di matrice individualistica, caratterizzate da elevata stratificazione sociale come quella degli Tlingit, era presente l' equivalenza delle nostre ricche famiglie di discendenza,ma vi era una diversa concezione dell'accumulo. In tal cultura venivano infatti organizzate cerimonie annuali o straordinarie, chiamate Potlach dove, per cause diverse, venivano ridistribuiti i beni delle famiglie potenti a quelle meno abbienti attraverso la somministrazione di beni sia alimentari, che materiali o spirituali. In tal contesto, quindi si esaudiva l'istanza individualistica incentrata sulla libera espressione delle proprie forze, capacità e competenze. Principi sviluppati grazie al commercio, alla caccia, alla pesca e all'arte. E nel contempo si soddisfaceva anche l' aspetto sociale e solidaristico, grazie alla distribuzione dei beni, configurandosi così, come una società dove gli aspetti legati ad un necessario individualismo e quelli social- integrativi venivano appagati in maniera equa. Fatta questa breve digressione possiamo considerare due aspetti fondamentali delle pecche propagandate dai fautori del liberismo: 1. Mistificare l'uso della parola libertà, tralasciando il fatto che, grazie a questa parola, si fornisce mano libera agli interessi dei grossi capitalisti, a discapito delle classi subalterne, concepite come soggetti da sfruttare per i propri interessi egoistici. 2.La liberalizzazione come fattore d' efficienza e minor spesa sociale per gli stati, anche nei settori di interesse pubblico, alla lunga non si traduce in ciò, ma esattamente nel suo opposto. Infatti è evidente come nel caso italiano le varie privatizzazioni dei settori bancari ferroviari, del settore siderurgico e di molte aziende di stato abbia prodotto un' impoverimento generale. All'epoca si teorizzava come queste aziende erano continuamente in perdita, facendo intendere che strutturalmente non potevano reggere senza grosse perdite. Su questo ci sarebbe da obiettare. In primo luogo perché se un azienda è gestita in malo modo è naturale che una circostanza simile accada. In secondo luogo perché se la mentalità è quella dello sperpero di risorse siccome "tanto paga lo stato”, si prefigura un problema d' ordine culturale anziché strutturale. Infatti un' azienda gestita con senso civico, per il bene comune e dove i lavoratori svolgono al meglio le loro mansioni, consapevoli dell'importanza che il bene collettivo si traduce inevitabilmente in quello proprio, non può che delinearsi come qualcosa di realmente produttivo e allo stesso tempo sociale. Ma soprattutto, anche nel caso delle imprese pubbliche, il profitto non costituisce l' obiettivo primario ma è l'interesse collettivo (come scopo sociale) ad essere predominante. Inoltre, nel lungo periodo la tesi della maggior efficienza e minor spesa non ha ragione d' essere. Questo perché il capitalista ragiona in termini di massimizzazione dei profitti. Il plusvalore di concezione marxista viene si investito, ma in gran parte, per speculazioni personali e solo lo stretto necessario per gli investimenti. Mentre in un azienda di Stato con tutti i problemi riscontrati (torno a ripetere, soprattutto di ordine culturale) tale plusvalore è usato nell’investimento di altre attività pubbliche generando di conseguenza un benessere alla società intera. Mentre nelle forme liberaliste specialmente nelle concentrazioni monopolistiche per ottenere la massimizzazione del capitale, si prefigura l' esigenza, si di investire, ma soprattutto di tagliare i costi perché il margine di guadagno aumenti esponenzialmente. E cosa sono questi costi? I costi maggiori riguardano la voce dei dipendenti e quella della manutenzione. Non è un caso (guardiamo la situazione Italiana degli ultimi 20 anni) se grandi aziende pubbliche, contenitori di grandi masse lavoratrici, oggi invece diventate pubbliche o semi-pubbliche, stiano diminuendo drammaticamente la forza lavoro in maniera sempre più repentina. Questa mancanza di lavoro si traduce così in una minore ricchezza per i singoli, dove il lavoro si configura come un offerta al ribasso e che inevitabilmente produce una progressiva perdita di diritti lavorativi. In tal contesto viene a mancare uno dei capisaldi del libero mercato: maggior ricchezza per tutti. Una società di questo genere dove la politica è stata completamente esautorata dal mercato e dove le decisioni importanti non sono decise ne dal popolo ne dai suoi rappresentanti politici non può che scadere in forme di convivenza simili alla schiavitù. Il benessere ingenerato non può che produrre schiere di poveri sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi. E qui emergono tutte le contraddizioni della liberalizzazione. In settori di primaria importanza come i trasporti, la sanità, il sistema pensionistico che dovrebbero consegnare un servizio ai cittadini e per i cittadini come primo obiettivo, si contrappone la logica del massimo profitto in mano a poche persone. Nessuno vuole negare un' iniziativa d' impresa, ma, in settori così importanti, stiamo assistendo ad una vera degenerazione sociale che avrà sempre più gravi ripercussioni sul benessere e sulla buona convivenza sociale.

giovedì 26 maggio 2011

La percezione dell'altro: la natura degli stereotipi (4° parte)

Analizzando la figura di Cortes salta subito agli occhi un paradosso. Egli conosce a fondo i Nativi ma, nonostante ciò, non esita a distruggerli. Tale evento è reso ancora più paradossale se, come si evince dagli scritti dei conquistadores e dello stesso Cortes, scopriamo quanta ammirazione traspaia dalle loro parole. Addirittura Cortes non esita a definirli più "raffinati" nelle usanze rispetto agli spagnoli. Egli è sinceramente estasiato dalle opere artigianali degli aztechi, li considera dei grandi artigiani, costruttori ed abili inventori . A differenza di Colombo che percepiva gli "Indiani" come semplici oggetti, Cortes invece crede che essi siano una via di mezzo: sono insomma dei soggetti ridotti al ruolo di produttori di oggetti di cui ne ammira le prestazioni. Egli insomma non riconosce all'azteco lo statuto di soggetto dotato di propria volontà. Cortes parla bene degli indiani ma non parla mai agli indiani. Todorov, giustamente analizza che il solo modo di riconoscere "l'altro" come soggetto è di aprire un dialogo con lui di riconoscere in lui peculiarità uniche e inimitabili ma allo stesso tempo di riconoscerlo come uguale a noi. L'autore bulgaro sottolinea come: " se il comprendere non si accompagna al pieno riconoscimento dell'altro come soggetto, allora questa comprensione rischia di essere utilizzata ai fini dello sfruttamento, del prendere, dove il sapere risulterà subordinata al potere". Uno dei primi difensori degli indiani è stato Las Casas che accusa a più riprese gli spagnoli di aver scambiato gli indiani per delle bestie e di trattarli come schiavi. Egli non è il solo a denunciare questa pratica e proclamare come essi non possano essere ridotti in schiavitù, sostenuto concretamente dai documenti ufficiali della corona spagnola. Egli afferma: "la nostra religione cristiana conviene, ugualmente a tutte le nazioni del mondo, è aperta a tutte nello stesso modo; non togliendo a nessuna le sue libertà e sovranità, non ne mette alcuna in stato di servitù col prestesto di distinguere tra uomini liberi e servi per natura" (Todorov, 1982,p. 197).Lo sbaglio di Las Casas è dedurre ingenuamente, in base al comportamento spesso docile e remissivo, che ogni indiano possa diventare un cristiano grazie alla conoscenza del Cristo. Non tenendo in dovuta considerazione come i nativi, essendo di un'altra cultura (ed avendo altri usi ed altre Dei in cui credere) ben difficilmente avrebbero compreso profondamente il messaggio cristiano, semmai lo avessero accettato. Questa sezione del libro viene chiamata da Todorov "amare" e in effetti l'emblematica figura di Las Casas ama davvero questi popoli e non smette di lodarli e di difenderli. Questa sua passione, osserva Todorov, lo fanno, se possibile, allontanare maggiormente da un reale conoscenza dell'altro. Egli tende difatti a idealizzare gli aztechi in base alle sue proiezioni e ne ignora irrimediabilmente l'identità sostituendola con una (per lui) più accettabile. Non è un caso come il frate domenicano tenda ad usare aggettivi, quali docili, amorevoli, gentili, tralasciando altri aspetti che potrebbero rovinare questa sua visione idilliaca di queste genti. Las Casas in realtà ama gli indiani ma, a differenza di Cortes, non li conosce e si limita a proiettare loro l'immagine ideale ed assimilazionista che si è creato. Tale concezione che tende ad renderli uguali ai popoli europei in realtà non fa altro che allontanarli da una reale comprensione davvero profonda. Ciò che non comprende Las Casas è che, senza instaurare una vera comunicazione con l'altro, difficilmente si riesce a scoprire la reale alterità altrui, unica via probabilmente per cogliere ciò che rende ogni individuo uguale all'altro. -Continua con l'ultima sezione: Conoscere- T. Todorov, La conquista dell'America, Einaudi, 1982, Torino

mercoledì 4 maggio 2011

La percezione dell'altro: la natura degli stereotipi (3° parte),

Scorrendo le pagine del saggio di Todorov, "La conquista dell'America", un altra figura emblematica che emerge dopo Cristoforo Colombo è quella di Cortés, il conquistatore celebre per aver sottomesso il più grande popolo sia culturalmente, sia a livello militare, del continente americano. Un impresa che sembrava impossibile vista l'esiguità numerica degli uomini che affiancavano Cortés nelle sue battaglie.Si parlava infatti di poche centinaia di uomini ma nonostante ciò lo spagnolo sconfisse l'esercito di Monteczuma per due ragioni particolari. Primo, Cortés mostra un certo interesse per gli indigeni e la loro cultura. Secondo, gli "indiani" non riconoscono assolutamente gli spagnoli e credono di aver di fronte delle creature divine. Così come colombo non riconosce l'alterità estrema degli indigeni, anch'essi non riconosco quella degli europei. Il primo elemento introduce quello che Todorov considera un aspetto fondamentale della successiva conquista e che fornisce il titolo alla seconda sezione del libro: "conquistare". Il conqistador spagnolo possedeva una qualità che per certi versi lo elevavano di rango rispetto ad altri suoi precedessori (e che probabilmente fece anche scuola in futuro) egli non era intenzionato a prendere (o comunque non esclusivamente) ma a comprendere l'altro. Questo atteggiamento innovativo è ciò che decreterà con maggior influenza la vittoria, netta e schiacciante, degli europei. Quando arriva nelle nuove terre americane egli non si preoccupa di ricercare l'oro ma di ricercare informazioni sugli indigeni e tale atteggiamento era sostenuto nondimeno dalla fede cristiana. Non è un caso che il primo atto densamente significativo sia di ricercare degli interpreti locali che possano fargli capire con maggior profondità la cultura Azteca. In questo caso emerge una prima grande differenza con Colombo. Il navigatore italiano non si preoccupava assolutamente di capire chi fossero gli indigeni anche perché li percepiva molto più vicino a delle bestie che a degli esseri umani (Diari di bordo, Colombo). Mentre Cortés, all'opposto, sa di aver di fronte persone di una cultura differente, che per certi versi ammira, ma che non esita a distruggere. Una volta compresa la cultura le debolezze, il sistema di credenze e i dissidi interni, riesce a sfruttare ogni singola situazione a proprio vantaggio infliggendo colpi mortali nelle difese del nemico. Ad esempio, conoscendo le credenze azteche che lo dipingevano come la probabile incarnazione di Quetzalcoatl, il Dio serpente, non fa nulla per dissimulare questa convinzione agevolandosi non poco la futura vittoria. Il secondo elemento da tenere in considerazione è il totale misconoscimento degli americani nei confronti dei nuovi arrivati. Di fatto questi popoli non avevano mai visto persone con vestiti e dotate di armi così diverse dalle loro. Questi particolari unito al complesso sistema di credenze Azteche fanno maturare un particolare atteggiamento per certi versi remissivo e, perlomeno inizialmente, paralizzante. Questa incapacità di riconoscere l'identità umana degli altri, come uguali e diversi allo stesso tempo, sembra essere determinante. La prima reazione degli Aztechi che riferirono a Monteczuma all'arrivo degli stranieri è esemplicativa: " Dobbiamo dirgli ciò che abbiamo veduto, ed è terrificante: nulla di simile è mai stato visto" ( Codice Fiorentino, Sahagùn). Con uomini così diversi e mai visti prima gli americani ricorrono ben presto nel scambiarli con degli Dei. Un altro fattore da tenere in dovuta considerazione è il sistema di credenze Azteco. Difatti la vita comunitaria, le cerimonie e la convivenza civile era regolata dai ciò che era stato tramandato dagli antenati e tutto era previsto in maniera statica e ciclica. A differenza della nostra concezione del tempo lineare e con eventi imprevedibili, quella dei Nativi è circolare : sostanzialmente ogni evento è previsto e ripetibile ogni ciclo.Questo è ciò che viene insegnato ai bambini aztechi diventando dotazione culturale del popolo. Una situazione imprevista come l'arrivo dei conquistadores non può che gettare nel caos questi popoli in quanto avvertirono questo avvenimento come un presagio nefasto e di sicura catastrofe. In effetti gli spagnoli, giocando su questi fattori e conoscendo bene i loro nemici, poterono agevolmente vincere senza subire alcuna perdita. La forza degli europei fu la comunicazione interumana, la capacità di comunicare agevolmente, è di gran lunga il fattore che incise di più nella vittoria dei conquistadores. -Continua- Todorov T., "La conquista dell'America- Il problema dell'altro", Einaudi, 1984, Torino. Sahagùn "Codice Fiorentino", Cit. in Todorov

sabato 30 aprile 2011

La percezione dell'altro: la natura degli stereotipi (2° parte)

In questa parte tratterò di un caso emblematico di riconoscimento o misconoscimento dell'altro: La conquista dell'America. Todorov T. l'intellettuale bulgaro (ma naturalizzato francese) ne ha tratto un saggio profondo ed esaustivo da cui ne ha dedotto il titolo del libro. Egli immagina come la scoperta dell'altro avvenga in più tappe di consapevolezza, dal punto più basso, dove gli esseri umani sono considerati alla stregua di oggetti, indistinti agli altri, a quello più alto, ossia alla massima consapevolezza, in cui le persone di diverse culture vengono considerate diverse ma con uguali diritti e dotati di una propria alterità significativa. Todorov afferma come la conquista dell'America riguardi non solo i conquistatori spagnoli, ma tutti gli esseri umani quando si trovano di fronte a genti e popoli sconosciuti oppure, meno genericamente, il nostro rapporto con persone che appartengono ad etnie o culture altre. Egli suddivide l'opera in quattro temi principali: Scoprire, Conquistare, Amare e Conoscere, accompagnate da personaggi che diventano l'emblema di ogni sezione. La prima parte è nominata 'scoprire' ed è caratterizzata dalla figura di Cristoforo Colombo, il celebre navigatore genovese. La sua perspicacia dimostrata nella navigazione e nella contemplazione e classificazione della natura, non è così fine nella scoperta degli indigeni che quelle terre le abitano. Todorov trae queste conclusioni dalla lettura dagli scritti del navigatore italiano (Todorov, 1982, p.19)che mostrano talaltro alcuni suoi tratti caratteriali e psicologici di estremo interesse. In primo luogo Colombo crede che il linguaggio non sia un insieme di segni convenzionali diverso per ogni popolo, ma è profondamente convinto che le lingue altrui debbano possedere gli stessi significati della lingua da lui parlata. Egli difatti, quando si trova di fronte una parola sconosciuta, ne cerca la corrispondenza spagnola senza preoccuparsi del reale significato che ne danno gli indigeni. Non è un caso che, successivamente, Colombo non consideri la lingua dei nativi come una vera e propria lingua. Ciò lo si deduce dai diari di bordo quando afferma con tono solenne "A Nostro Signore piacendo, al momento della partenza porterò sei di questi uomini alle Vostre Altezze, così che possano imparare a parlare";. In secondo luogo, si desume dai suoi diari (1982, p.41) come il navigatore non sia interessato a scoprire il mondo altrui, in quanto considera le persone di quelle terre come una parte indistinta della natura: "fra gli uccelli e gli alberi vi sono anche gli uomini". Egli non è minimamente interessato all'uomo in quanto tale il motivo è forse da ricercarsi nel fatto che li consideri dei semplici selvaggi, poco più che animali. Le sue osservazioni riguardanti gli indigeni sono generalmente superficiali e riguardano in special modo l'aspetto fisico. Nondimeno è salva la questione morale aprioristicamente decisa dalla cultura di riferimento europea e personale. Inizialmente etichetta tali popoli come dotati di gran cuore, amichevoli e molto docili. Ciò si spiega forse con i doni di collane d'oro in cambio d'oggetti di poco valore. Anche in questo caso Colombo non comprende che anche l'oro possiede un valore convenzionale molto alto per gli spagnoli esiguo, evidentemente, per gli indigeni. In seguito egli muta totalmente la concezione positiva che aveva maturato degli indiani quando impara a conoscerli meglio,incontrando successivamente popoli meno pacifici dove rischiò seriamente la vita. Ciò che fece probabilmente virare decisamente da buoni a cattivi è quando Colombo intuì come molti di loro non volevano sottomettersi allo schiavismo a cui andavano incontro e come normale che fu, si ribellarono. Fonte: La conquista dell'America, T. Todorov, Einaudi, 1982 -Continua-

venerdì 1 aprile 2011

La percezione dell'altro: la natura degli stereotipi (1° parte)

Un argomento spesso affrontato ma comunque troppo poco approfondito, riguarda la percezione che abbiamo degli altri e di come li classifichiamo. Qualcuno li avverte come individui unici, portatori di culture e mondi diversi altri, alla stregua di semplici oggetti da utilizzare per i loro scopi. Todorov (1982) immagina la scoperta dell'altro come un percorso che si sviluppa entro un continuum in cui sia ogni società e cultura attuale o passata e sia ogni individuo (da quando nasce fino all'età adulta) si situa nella progressiva scoperta dell'altro. Dapprima, nelle culture meno evolute (e nei bambini piccoli),sembra avvertirli come un oggetti confusi tra gli altri e successivamente, gradualmente attraverso tappe intermedie, percependo "l'altro" come un soggetto uguale a sé ma con qualità uniche ed originali. L'alterità è, sovente per i giovani, fonte di ricchezza, curiosità e conoscenza, laddove tale concezione negli adulti sembra corrompersi tramutandosi in sospetto, paura e rifiuto. Logicamente i bambini non sono esenti da classificare il mondo, in quanto riescono a conoscerlo più facilmente, però conservano, a mio parere, una flessibilità che sembra in seguito cristallizzarsi nei soggetti maturi. Tutto ciò è la naturale conseguenza del corso del tempo o piuttosto una stortura culturale, appresa in un contesto arcaico e propagata successivamente nelle varie generazioni? Cosa muta così radicalmente la nostra visione del mondo e degli altri? A mio avviso vi sono diverse variabili che determinano o possono determinare, spesso in concomitanza tra di loro, lo sviluppo di tale atteggiamento. Le categorie facilmente si trasformano in stereotipi e non sempre possiedono connotazioni negative. Infatti, a differenza del pregiudizi, possono essere forieri di connotazioni positive o negative. Positive perché consentono di procurarsi una prima impressione utile a comprendere come comportarsi con l'altro e risparmiare tempo a scapito di lunghe analisi procedurali. In informatica tale processo si chiamerebbe euristica, ossia una scorciatoia essenziale a rilevare risultati non sicuri ma perlomeno probabili. Invero è essenziale considerare come gli stereotipi, equiparabili a degli schemi mentali, aiutino l'essere umano a organizzare la marea di informazioni che gli giungono attraverso i sensi. Tant'è vero che la mente umana, per non essere sopraffatta dal caos dell'informazione, incasella esperienze simili per riconoscerle meglio e recuperarle più agevolmente. Negative perché questa prima classificazione tende troppo spesso ad irrigidirsi, trasformando delle semplici generalizzazioni in certezze monolitiche difficilmente scalfibili e modificabili. Tali semplificazioni giustappunto tendono ad essere attribuite all'individuo, giudicato non in base a sue qualità intrinseche, bensì alle caratteristiche superficiali dell'intera categoria che rappresenta. Similmente alle categorizzazione, gli stereotipi funzionano come classificazioni estremamente semplificate di persone, etnie, razze e sono generalmente condivise ampiamente da un certo gruppo sociale. Secondo Tajfel gli individui di una data comunità desiderano e cercano una differenzazione positiva nei confronti dell'altra. Questo processo si sviluppa attraverso la semplificazione e sistematizzazione della complessità dell'informazione (Tajfel, cit. in De Caroli,2005). A mio avviso ciò che fa la differenza è una caratteristica d'ordine culturale legata al processo schematico di categorizzazione. Infatti secondo la teoria del conflitto realistico (Sherif, 1961) ciò è sufficiente a generare processi che conducano alla formazione degli stereotipi. Sherif verifico le sue ipotesi per mezzo di un semplice esperimento. Suddivise arbitrariamente i ragazzi di un campo estivo di boy scout in due gruppi distinti, ingroup vs outgroup, ponendoli in conflitto tra di loro con dei giochi sportivi e mettendo a disposizione per i vincitori premi appetibili e preziosi utili in quel contesto. Lo studioso osservò come gli atteggiamenti dei due gruppi divennero molto coesi all'interno della stessa fazione e altamente ostili nei confronti dell'altra. Secondo Sherif il conflitto era sufficiente per generare uno scopo condiviso, la stigmatizzazione e la competizione con l'aggregazione avversa, notando all'opposto, come bastasse istituire un'obiettivo condiviso tra le due opposte fazioni per dissimulare facilmente le vecchie ostilità. La riflessione che impone un simile esperimento è la constatazione di come l'uomo sia influenzato decisamente dal suo sistema sociale di riferimento, minando o comunque influendo sulla sua capacità di giudicare razionalmente. Difatti, in tal contesto le convinzioni che si hanno su altre persone sembrano più una questione dettata dall'emotività e che fanno aderire il soggetto più al pensiero comune piuttosto che all'uso della propria ragione. Nelle intenzioni di Sherif tale esperimento simula ciò che succede nella realtà sociale. Questo studio, a mio parere, pur avendo una valenza positiva non è completamente esaustivo in quanto per ottenere un conflitto con un altro gruppo che sia largamente condiviso, specialmente in un contesto sociale complesso come quello attuale, è necessaria l'esistenza di sentimenti comuni che permettano di squalificare il mondo altrui per valorizzare il proprio. L'individuo nella formazione della sua identità fa necessariamente riferimento ad un continuo paragone con gli altri in cui cerca conferme al proprio sé. Conseguentemente egli sviluppa un'identità di tipo sociale dove confronta il suo gruppo(nazione, razza, status sociale) con altri, sviluppando sentimenti comuni, senso di appartenenza e fedeltà ai valori condivisi. Secondo Tajfel difatti, il soggetto per conservare un giudizio positivo di sé, enfatizza le caratteristiche positive del proprio gruppo, tralasciando quelle negative, e considerando invece pregiudizievolmente i comportamenti, i tratti e le usanze di altre aggregazioni in modo da mantenere e accrescere la propria autostima. Questi studi permettono di ipotizzare come tali idee stereotipate possono (con relativa facilità) essere sfruttate da un elites di persone per suggestionare e provocare odi ed intolleranze verso popoli o minoranze etniche utili a conseguire i loro interessi economici, religiosi e di potere. Bibliografia De Caroli Maria elvira Categorizzazione sociale e costruzione del pregiudizio Franco Angeli Milano 2005 Todorov Tzvetan, La conquista dell'America, Il problema dell'altro Einaudi 1982 Sherif, M., Harvey, OJ, White, BJ, Hood, WR,Sherif, CW (1961): Intergroup conflict and cooperation: the Robbers Cave experiment .

venerdì 25 marzo 2011

Educazione al sentire

Oggi sono sempre più le voci che si levano a sostegno di una maggiore integrazione dei vari tipi d'intelligenza nell'essere umano, anche se la modernità, ha costruito le sue fondamenta sull'aspetto razionale dell'intelletto scisso dalle emozioni. Attualmente alcuni psicologi come Goleman (1997) hanno sottolineato l'importanza degli aspetti emotivi nei processi d'apprendimento. Dello stesso avviso è Carl Rogers che auspica una riconciliazione tra ragione e sentimento. Secondo la sua esperienza, maturata nella terapia centrata sul cliente, egli afferma: “questa separazione della ragione dal sentimento, è uno dei primi miti che crollano nell'approccio centrato sulla persona. Gli individui scoprono se stessi comunicando con il proprio essere totale ed esprimendo le proprie esperienze, non con qualche fredda rappresentazione intellettuale di esse” (Bruzzone, 2007). Ciò che Rogers (1976) propone nei gruppi di incontro sembra essere auspicabile anche nelle aule didattiche. L'autore era già all'epoca consapevole che l'educazione subita nei primi anni scolastici diventa un'insana abitudine, difficile da estirpare; tuttavia ottimisticamente incita a non concludere ogni sforzo per favorire una nuova umanizzazione, siccome in gioco vi è la stessa salvaguardia dell'umanità.1 In questa visione olistica, l'educazione ha lo scopo di favorire contesti d'apprendimento e climi relazionali dove la persona, nella sua totalità, possa esprimersi e dove i due aspetti del razionale e del sentimento fondendosi, si aiutano reciprocamente. Io credo che la parte razionale debba svolgere una funzione di indirizzo e di supporto per assecondare quella emotiva. La parte emotiva incidere spesso in modo significativo sulle decisioni, sugli obbiettivi e sulle motivazioni, e reclama a gran voce di essere presa in considerazione. Carl Jung (1997) rileva che le emozioni represse, agiscono in forme e modi che possono risultare dannosi per l'integrità fisica e mentale. La definizione che egli ci propone è il concetto di ombra ovvero una serie di emozioni rimosse e non riconosciute dal soggetto che agiscono autonomamente minando la volontà dell'individuo. Il cuore, spesso confuso con il sentimentalismo e i buoni sentimenti, è assoggettato alla retorica e al pregiudizio. Gli studiosi di recente generazione dimostrano invece che possedere una buona intelligenza emotiva permette di raggiungere risultati migliori (Damasio). E' dimostrato come i sentimenti possano influenzare l'apprendimento, quindi gli apparati scolastici in sinergia con i genitori non dovrebbero sottovalutare tale aspetto . Un atteggiamento di approvazione e di incoraggiamento renderanno i bambini più ottimisti, fiduciosi, curiosi e le piccole sconfitte non andranno ad inficiare i risultati futuri, perché verranno percepiti come semplici segnali per un necessario cambio di strategia. Al contrario coloro che nell'infanzia hanno subito un'educazione contrassegnata da sfiducia o da un eccessivo “ lasciar fare” affronteranno le avversità con un atteggiamento esitante e saranno pervasi da un senso d'inutilità. Per Branzelton, (citato in Goleman, 1997) un famoso pediatra di Harvard, ciò che rende un bambino pronto ad affrontare un percorso scolastico efficace sono le conoscenze procedurali ossia il sapere come imparare. Egli stila a riguardo una serie di abilità: 1.Fiducia: il bambino ha un senso di padronanza sul proprio corpo, sul proprio comportamento, sul proprio mondo; questa consapevolezza, gli permette di avere maggiori probabilità di riuscita in ciò che intraprende; 2.Curiosità: la sensazione che la scoperta sia un attività positiva e fonte di piacere; 3.Intenzionalità: il desiderio e la capacità di essere influenti e perseveranti. 4.Autocontrollo: ovvero la capacità di modulare e di controllare le proprie azioni 5.Connessione: la capacità di impegnarsi con gli altri, basata sulla sensazione di essere compresi e di comprendere gli altri. 6.Capacità di comunicare: il desiderio e la capacità di scambiare verbalmente idee, sentimenti e concetti con gli altri. 7.Capacità di cooperare: l'abilità di equilibrare le proprie esigenze con quelle degli altri in un'attività di gruppo. Tali abilità o alcune di esse possono essere maggiormente spiccate in alcune persone ma è anche vero che queste capacità possono essere imparate e, la famiglia di riferimento, influisce non poco in questa crescita. Uno dei concetti fondamentali che sembrano fare la differenza nella riuscita sociale è quello di empatia. Edith Stein è stata la prima a svolgere ad ampliare questo argomento. Ella definisce empatia la capacità di una persona di cogliere l'esperienza del vissuto altrui e della sua personalità , senza però identificarsi totalmente, rimanendo quindi, un osservatore più efficace.2 L'atto empatico a differenza della simpatia che opera secondo un effetto discriminatorio tendente all'assimilazione o all'esclusione, si caratterizza per una comprensione e accettazione incondizionata dell'altro. In quest'ottica l'individuo empatizzato, attraverso la riconoscenza dell'altro, diviene consapevole della propria unicità irripetibile e preziosa. Il soggetto empatizzante pur riconoscendo l'altrui alterità riesce a percepirne paure, disagi e frustrazioni. Precondizione di una buona empatia è l'essere dotati di buone doti introspettive. Infatti la persona che sa riconoscere e identificare i propri stati interni ha gli strumenti per una migliore comprensione dell'animo umano. A dispetto di una psicologia di “testa” che tende a stigmatizzare e incasellare i comportamenti umani in un disparato ma limitato contesto di categorie, l' empatia favorisce l'individuazione della persona per quello che è, scevra da atteggiamenti giudicanti e valutativi. L'atto empatico contempla necessariamente un clima relazionale approntato sulla fiducia e sull' accettazione e ha come risultante quella che Buber (2003) chiama conferma. Questo concetto si riferisce ad una relazione fra esseri umani che nella reciprocità del rapporto riconoscono la loro originale diversità. L'empatia inoltre comporta l'emergere di una nuova figura, il noi. In questo contesto le individualità, l'io e il tu, rimangono ben distinti e non vi è mai completa identificazione. L'immedesimazione, non essendo totale, permette di rimanere ognuno nella propria originarietà ma, nello steso tempo consente di arricchirla, in quanto il contatto con un altro sé pregiudica un'integrazione delle esperienze soggettive altrui. Per Rogers l'empatia è più un processo che uno stato e consiste “nella capacità di essere compagno fiducioso nel mondo interiore dell'altro” ovvero, nel suo percorso interiore di cambiamento. (Bruzzone, 2007, p.111) Il valore dell'atto empatico si connota per due peculiari caratteristiche: favorire la crescita e il cambiamento. L'individuo non sentendosi giudicato o interpretato come portatore di un comportamento stereotipato, si sente più libero di esprimersi secondo il proprio sentire e percepisce il suo mondo come dotato di valore, consentendogli di gettare le basi verso un miglioramento e un mutamento percepito come significativo. Nonostante quest'epoca sia contrassegnata sempre più dall'omologazione e dall'eterodirezione, dove la singolarità non è apprezzata a meno che non si tratti di individui eccezionali (o ritenuti tali), l'empatia può essere un efficace mezzo per contrastare questa tendenza spersonalizzante. La competenza affettiva piuttosto che delinearsi come una panacea contro un tutti i mali, può diventare propedeutica verso una nuova convivenza civile, dove le singole individualità possano manifestarsi e tendere verso una società volta al benessere. Il neurofisiologo Damasio afferma che le emozioni sono necessarie e influenzano inevitabilmente la capacità di ragionare. Egli ne sottolinea l'importanza come elementi che contribuiscono alla funzionalità del sistema cognitivo ed evidenzia l'interconnessione esistente tra ragione e sentimento, questa complementarità coinvolge a livello neurofisiologico, le due parti dell'emisfero cerebrale. L'essere umano ha bisogno di educare sinergicamente gli affetti e l'apparato cognitivo per un percorso di crescita e di benessere personale che possa permettergli di sviluppare adeguatamente le proprie potenzialità. Nonostante grandi pensatori abbiano capito quanto sia importante curare in egual modo cognizione e sentimento, continua a prevalere la tendenza a sottovalutare l'aspetto emotivo. Ogni persona dovrebbe dare voce ai propri sentimenti, attraverso la parola o la scrittura. Con queste tecniche è possibile comprendere meglio ciò che si prova, rendere tangibile un emozione e fare chiarezza nella propria interiorità per capire ciò che ci serve veramente per essere appagati, imboccando il percorso più consono ad esprimere in toto noi stessi. La simbolizzazione degli stati interni non deve essere mutuata da qualche persona influente che altrimenti contrasterebbe una sana ed efficace auto-comprensione (Corradi, 2003). Infatti una persona che non riuscirà ad esprimere ed a comprendere le emozioni, i sentimenti, le passioni, oltre ad essere meno competente e consapevole, sarà anche più soggetta al dominio altrui. (Gardner, 2003). Lo svuotamento ed il misconoscimento delle emozioni la loro banalizzazione , nel complesso contribuiscono notevolmente alla vendita di emozioni senza implicazioni ne sforzi, ma con un impoverimento dell'universo intimo dell'essere umano che viene impoverito. Bibliografia Buber (2003). Tra il bene e il male. Bruzzone D. (2007). Carl Rogers. La relazione efficace nella psicoterapia e nel lavoro educativo. Roma: Carocci. Damasio A.(2003). Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello. Milano: Adelphi. Gardner H. (1987). Formae Mentis. Saggio sulla pluralità dell'intelligenza. Milano: Feltrinelli. Goleman, D.(1997). Intelligenza emotiva. Milano: Rizzoli.

giovedì 10 marzo 2011

Tendere all'autorealizzazione





Introduzione

Spesso si legge, quasi esclusivamente in rete, di come l'individo sia soggetto al dominio di un elité di persone, un oligarchia, che tenta in tutti i modi di controllare l'uomo per renderlo un individuo passivo, concentrato a seguire squalificanti programi televisivi e sport in modo da distrarsi dai problemi reali. Addirittura si ipotizza come una razza o più razze aliene controllino l'essere umano per i più svariati interessi. Non voglio negare come alcune di esse siano teorie affascinanti e valide, che seguo tra l'altro con un partecipato interesse senza negarmi però, un minimo senso critico in modo da potermi districare ed orientare nel magma delle informazioni incontrollate e talvolta poco serie. Temo che tali considerazioni, seppure propedeutiche ad acquisire maggior consapevolezza e punti di vista diversi e divergenti, tendano a dequalificarci come esseri umani in modo che, se la colpa è fuori di noi, possiamo liberarci delle nostre personali responsabilità e puntare il dito su qualcun'altro al motto "i mostri sono loro", potendo così rimanere sostanzialmente uguali, senza tentare minimamente un cambiamento delle nostre abitudini. Siamo tutti propensi a cambiare la società, gli altri, i governi ma difficilmente sentiamo una responsabilità personale sulla nostro situazione. Oppure, spesso si fanno denunce senza proporre qualche soluzione efficace come se, la semplice consapevolezza sia in grado, da sola, di cambiare qualcosa. E' mia opinione che un cambiamento seppur minimo possa avvenire attraverso un lavoro su noi stessi e in quei contesti, come la scuola, che possono permettere di portare a compimento la "chiamata personale" degli individui, facendosi promotrice di una società più sana e democratica. Per questo credo sia importante concentrarsi non tanto sull'aspetto esclusivamente razionale o nozionistico, ma sulla possibilità che ogni soggetto possa divenire ciò che è, in modo da tendere ad uno dei bisogni fondamentali dell'uomo: la propria autorealizzazione.


Motivazioni e attribuzioni del sé

Uno dei presupposti fondamentali di ogni sistema educativo, ciò che dovrebbe stare a cuore ad ogni insegnante, è rendere le persone in grado di utilizzare le proprie capacità al meglio, e capire di quali potenzialità siano dotate. Al di là delle retoriche, dovremmo chiederci se il compito del sistema educativo sia quello di “riempire” di concetti gli studenti, di renderli funzionali esclusivamente al mondo del lavoro, come se fossero automi senza emozioni, aspirazioni e sentimenti. Lo scopo dell'educazione non può quindi prescindere dalle esigenze di autonomia, benessere, dagli interessi personali, dai desideri, dalle aspirazioni e dai bisogni del soggetto. Una struttura scolastica più umana non può prescindere da tali importanti variabili, e una società consapevole e più funzionale dovrebbe favorire, a mio avviso, l'auto-realizzazione delle persone.
All'interno del sistema scolastico si tende generalmente sostenere miglioramenti di tipo quantitativo usando strumenti come i giochi educativi e i modelli didattici. Senza tenere conto che tali strumenti, da soli, non possano garantire un adeguato apprendimento. La visione che accomuna la mente dell'uomo ad un semplice elaboratore di informazioni, non contempla gli aspetti motivazionali del soggetto e non tiene nella giusta considerazione l'esistenza di un comportamento motivato e di un comportamento passivo. Per capire meglio ciò, si può fare riferimento alla teoria dell'autodeterminazione di Deci e Ryan (1985) basata su una scala motivazionale che va dal gradino più basso a quello più alto.
Nel primo scalino abbiamo il livello più basso di motivazione, quello meno “sentito”, rappresentato dal senso di dovere, caratterizzato da un comportamento di tipo obbligatorio, in cui la motivazione è avvertita come determinata dall'esterno (motivazione estrinseca). In questo caso il soggetto agisce ed è regolato in base ad un sistema di premi e punizioni tipica impostazione delle teorie comportamentistiche, di cui Skinner ne è il rappresentante più emblematico.
All'altro polo invece abbiamo la massima motivazione, ovvero l'obbiettivo viene percepito come parte di sé ed è importante per la propria formazione (motivazione intrinseca), (Moé, 2010).
Molto spesso “l'istruzione” sembra associarsi alla motivazione e viene subita piuttosto che essere percepita come fonte di crescita e di miglioramento del sé. Il sistema educativo privilegia, come fu rilevato da Rogers , l'adeguamento degli studenti alle richieste dell'istituzione piuttosto che la promozione del pensiero autonomo, critico e divergente.
L'identificazione tra educazione e valutazione e la concentrazione eccessiva e ossessiva sugli aspetti nozionistici (come se questi da soli esaurissero il compito educativo) diverge da ciò che Rogers ad esempio propone, ossia di focalizzare le risorse formative sulle tecniche di appropriazione di adeguati strumenti euristici e procedurali (Bruzzone, 2007). Questi strumenti permettono di giungere alla scoperta di nuove teorie, alla risoluzione di problemi, grazie all'uso dell'intuito e alla capacità prettamente umana di utilizzare “scorciatoie” che permettono di immaginare situazioni nuove e giungere a soluzione creative.
E' interessante evidenziare, a questo proposito, l'importante contributo di Gardner (1987) che fornisce una visione meno monolitica dell'intelligenza. Egli critica la visione classica dell'intelligenza come immutabile e unipolare, dove i test del QI la fanno da padrone, individuando sette “talenti” differenti. Lo studioso, opponendosi alla mentalità che divide le persone in due categorie distinte (intelligenti e non), estende la classica concezione dell'intelligenza, quella verbale e quella logico-matematiche, aggiungendo altri cinque attitudini. Tra queste egli include la capacità spaziale, ossia l'abilità di percepire e rappresentare gli oggetti visivi anche in loro assenza, tipica degli artisti; le abilità interpersonali tipiche di coloro che sono capaci di comprendere gli altri, di entrare in empatia e di percepire gli stati d'animo altrui; l'intelligenza intrapersonale ovvero quell'abilità che permette di conoscere se stessi, utile ad avere una crescente autoconsapevolezza; quella cinestetica rilevabile principalmente nella padronanza e coordinazione dei movimenti del corpo e infine l'abilità musicale consistente nel riconoscere variazioni di tempi, timbri e toni.

L'importante distinzione di Gardner permette di focalizzare meglio uno dei compiti formativi di maggior rilevanza. Un evento formativo che possa ritenersi significativo non può prescindere dal dedicare forze e impegno alla comprensione delle attitudini che ogni individuo possiede. Non può esimersi perché, capire l'insieme dei talenti propri di una persona, è essenziale per favorire lo sviluppo soggettivo e la capacità di esprimersi in base alle proprie caratteristiche.
Si è assistito, con l'avvento della tecnica, ad uno sviluppo inimmaginabile della tecnologia che ha inevitabilmente posto in secondo piano le capacità interiori in quanto difficilmente misurabili. Oggi in realtà si rileva un nuovo interesse per tutto ciò che riguarda genericamente l'anima, i sentimenti e le emozioni, anche se è utile scorgere in tali aspetti una valorizzazione di stampo prevalentemente consumistico.
Se abbiamo incrementato la scienza fino a spingerci a livelli impensabili per l'uomo pre-moderno, per quanto riguarda la formazione umana e la sua personalità egual sviluppo non è avvenuto. La personalità, che si forma necessariamente nell'interazione sociale, subisce di conseguenza l'imperante l'influenza della sofistificazione tecnologica. Il mancato progredire di queste due polarità non può che creare degli squilibri nell'integrità umana.
Come rileva Rogers: “lavoriamo assiduamente per liberare l'enorme energia dell'atomo e il nucleo dell'atomo. Se non dedichiamo altrettanta passione- e anche altrettanto denaro- alla liberazione delle potenziali capacità individuali, la grande discrepanza fra il livello delle nostre risorse fisiche e quello delle nostre risorse umane ci destinerà a una distruzione meritata e universale” (Bruzzone 2007).
Capire e incentivare l'autonomia realizzativa permette l'affrancarsi dalla necessità di essere guidati (eterodiretti) e consente di prendere coscienza delle proprie possibilità e di sviluppare la necessaria padronanza per essere liberi dai condizionamenti che operano come pressioni esterne. Non è un caso che l'opinione altrui abbia così forza sull'uomo sociale e che le varie manipolazioni a cui siamo soggetti con i mass media condizionino in modo significativo il nostro comportamento. Questa vera e propria manipolazione viene chiamata da David Riesman (1950) eterodirezione che definisce: “un atteggiamento attivo nella ricerca della conformità”.
L'insegnamento scolastico non può prescindere dalla formazione umana intesa nel suo complesso e da un educazione che permetta e incoraggi la presa di coscienza delle peculiarità personali. La consapevolezza del proprio sé consentirebbe (ipoteticamente) autonomia dal giudizio altrui e renderebbe possibile concentrare le energie sulle modalità d'apprendimento e non solo su contenuti e nozioni, fornendo agli individui l'opportunità di imparare ad imparare. Questo approccio suggerisce di adottare e di utilizzare tecniche diverse d'apprendimento a seconda degli stili cognitivi, delle abilità possedute e dalle specifiche modalità d'apprendimento degli alunni, riportando il soggetto discente al centro del percorso educativo. In quest'ottica l'aspetto valutativo ha la sua importanza ma solo come strumento utile a misurare un percorso di crescita.
Occorre sottolineare a questo proposito, che la percezione del voto scolastico ha un importanza particolare. E' importante evidenziare come gli studenti avvertano questo feedback in maniera diversa; alcuni, ad esempio, percepiscono il voto come una valutazione sulla persona e vivono il compito come una conferma della loro intelligenza o della loro inettitudine.
Carol Dweck (2007; p. 19) definisce questo stile: la teoria dell'intelligenza come entità, ovvero il percepire le proprie capacità cognitive similmente ad un tratto fisso che non può cambiare perché giudicato immodificabile.
La studiosa definisce invece coloro che possiedono una visione meno stereotipata dell'intelligenza come orientati alla padronanza. Per questi soggetti l'intelligenza è tutt'altro che un tratto fisso ma qualcosa che è possibile modificare e incrementare nel tempo. Essi focalizzano gli sforzi sul lavoro, sull'uso di strategie diverse, sull'impegno e sulla conseguente previsione d'imparare qualcosa che li farà crescere.
Un insegnante funzionale dovrebbe necessariamente fornire una prospettiva di miglioramento e sviluppo delle abilità preesistenti.
Ciò si configura come un compito gravoso per il fatto che comunemente si è abituati a concepire l'intelligenza come un tratto fisso e poco modificabile.
Naturalmente questo dipende dal tipo d'educazione impartito dai genitori e ritengo che l'immaginario comune sia sostenuto da credenze che concedano troppa fiducia ai test che misurano il QI.
Carol Dweck (2007) come abbiamo visto, ha individuato due teorie del sé, relative a come gli studenti percepiscono la propria intelligenza: la teoria dell'entità e quella incrementale.
La prima categoria si limita generalmente a dimostrare agli altri e a se stessi, di essere capaci impegnandosi in compiti che (per predisposizione) confermino le abilità possedute. Ciò presuppone che difficilmente, la persona con tale concezione, si impegnerà in compiti complessi o ritenuti tali perché le sfide sono ritenute una minaccia all'autostima.
La seconda categoria percepisce la propria intelligenza sostanzialmente flessibile perché non avvertita come un tratto fisso pertanto, grazie all'impegno, è possibile incrementarla e raggiungere gli obiettivi agognati.
Essi risultano meno preoccupati nel risultare intelligenti e capaci e si concentrano maggiormente sull'obbiettivo d'imparare qualcosa di nuovo in funzione di un aumento della loro padronanza.
Sotto l'impulso della padronanza le persone raccolgono le energie nel cercare strategie capaci di superare le difficoltà, aumentare le competenze e padroneggiare compiti ogni volta più complessi.
Per questi individui perciò l'eventuale insuccesso rappresenta una sfida che può, se superata, condurre ad una grande gratificazione. I possessori di una teoria dell'entità, per l'autrice maturano quella che definisce un “impotenza appresa” ossia un tipico atteggiamento che un nutrito numero di studenti hanno verso le difficoltà e gli insuccessi. In questi casi un compito complesso richiama reazioni votate a sminuire le proprie capacità intellettive.
I soggetti di questa categoria tendono a denigrarsi o autosabotarsi per conservare la propria autostima. Per loro gli obiettivi preminenti sono quelli che permettono di ottenere giudizi positivi sul proprio operato evitando, se possibile, quelli negativi.
Da queste considerazione si può dedurre che la differenza tra i due stili è dettata da ciò che gratifica maggiormente: se la gratificazione è estrinseca e contrassegnata dall'importanza data al giudizio altrui o dalla possibilità di ricevere dei premi, si ha uno stile entitario.
Nell'altro caso la soddisfazione nasce da un bisogno interiore, contrassegnato dal sentirsi in grado di superare gli ostacoli, acquisire sempre maggior capacità e sono definibili come possessori di uno stile orientato alla padronanza.
La psicologa, attraverso le sue ricerche, ha constatato che la differenza tra i due stili sia da imputare al significato che le due diverse categorie assegnano all'impegno.
Per gli “entitari” l'impegno è sintomo di mancanza di abilità e l'intelligenza si dimostra quando i problemi e i compiti vengono risolti nel più breve tempo possibile.
Per gli incrementali invece l'impegno è la condizione necessaria per ottenere dei successi e la consapevolezza di come solo attraverso di esso si possa crescere.
Dweck dimostrò in classe questa ipotesi per mezzo di test matematici. Individuò un sufficiente numero di studenti che provenivano da ripetuti insuccessi scolastici e che svilupparono una risposta d'impotenza di fronte alle difficoltà. Suddivise gli alunni in due gruppi uguali. Al primo, fu assegnato un docente che focalizzasse maggiormente l'attenzione sui successi favorendone l'ottenimento.
Invece il secondo gruppo ricevette un insegnamento definito “attributivo”. I professori spingevano i loro studenti a capire le cause dei successi o degli insuccessi e veniva premiata la profusione dedicata all'impegno.
Dweck constatò in poche sessioni che i soggetti indirizzati ad attribuire le cause all'impegno, potevano concentrarsi maggiormente sul compito ottenendo risultati di volta in volta migliori.
Al contrario i componenti del gruppo “orientato alla prestazione” continuava a dedicare un attenzione maggiore ai successi e agli insuccessi,come conferma o meno della propria intelligenza, in questo caso quello che più importava loro era dimostrare le abilità possedute, palesando come la motivazione che li spingeva dipendesse più da fattori esterni.
La cosa sorprendente era la constatazione di come gli studenti del secondo gruppo, anche dopo l'esperimento, dimostravano in classe un desiderio d'imparare maggiore rispetto a prima, addirittura richiedendo più compiti.
Invece gli alunni del primo gruppo, anche se abituati al raggiungimento dei successi, dimostravano una persistenza di risposte negative quando affrontavano delle difficoltà, nonostante l'entusiasmo nel superare certi compiti mediamente difficili doveva in teoria indurli ad una maggior fiducia.
Il fatto sconfortante di questo modello è la constatazione di come il comportamento di questi soggetti non venga minimamente intaccato, rimanendo sostanzialmente uguale a prima.
Nel sistema educativo, sia genitoriale che scolastico, è purtroppo prevalente la tendenza ad assegnare un gran valore al successo ed a mistificare l'insuccesso. Tale comportamento, generalmente in buona fede, è tenuto spesso a fin di bene. Molti genitori, nel sostenere i loro figli, tendono a lodare l'intelligenza perché il senso comune ripercorre strategie che consentano di salvaguardare la fiducia nelle loro capacità credendo che un complimento, a differenza di una critica, possa infondere una miglior difesa al sé della persona.
Questo probabilmente è dovuto ad una concezione stereotipata delle lodi che vengono concepite come un rinforzo atto a superare le difficoltà.
Ma come provano gli studi succitati, le lodi alla persona tendono a renderlo dipendente dall'approvazione esterna, perché percepite come una conferma o meno del proprio valore.
A mio parere la loro azione inficia l'autonomia del giudizio personale poiché, dipendendo da una fonte esterna, diventa impossibile maturare una stima di sé indipendente.
Invero, come afferma la Dweck, il desiderio di confermare la propria intelligenza non crea le condizioni ideali per imparare qualcosa.
Anzi probabilmente tende a favorire l'emergere di sintomi negativi (quali l'ansia), che possono risultare un ostacolo al raggiungimento di certi obiettivi, siccome possono condizionare l'individuo ad agire in maniera sufficientemente funzionale.
Tale dinamica si ripresenta anche nelle aule scolastiche e riflette un modo di intendere l'educazione occupata a perseguire prevalentemente i risultati. L'individuo è valutato quasi esclusivamente in base alle prestazioni senza prevedere un percorso che lo conduca verso l'autonomia e lo sviluppo delle sue abilità.
Questa considerazione è avvalorata dalle ricerche svolte da Dweck sui due stili differenti e in proposito sembra che l'ambiente eserciti un ruolo fondamentale nel delineare un tipo di attribuzione rispetto all'altra.
E' doveroso introdurre altri studi come quelli condotti da Kagan e Snidman (citato in Dweck 2000) che hanno tentato di dimostrare, come possa il temperamento influenzare l'atteggiamento adottato nelle circostanze problematiche, è infatti possibile che una determinata indole dia risposte improntate al coraggio o alla timidezza ma non sembrano essere così importanti nel contrastare un cambiamento. Infatti queste caratteristiche innate, seppur influenti, non dovrebbero diventare determinanti come dimostrano gli esperimenti svolti successivamente della Dweck e i suoi collaboratori.
Essi dimostrano come critiche e lodi da parte dei soggetti educativi, condizionino pesantemente la tipologia di stile adottata, invece una critica rivolta all'impegno più che alla persona, permetteva di attendersi risposte da parte dei bambini più orientate alla padronanza. Non solo, esse confermavano la teoria sull'inefficacia di un uso scorretto della lode.
Infatti la lode è ritenuta comunemente un incentivo positivo per rinforzare la volontà, eppure sembrerebbe rappresentare un serio ostacolo nel processo formativo dei giovani. Questo perché tenderebbe a giudicare più il complesso della persona piuttosto che l'impegno.
La ricerca condotta da Dweck e Kamins (citato in Dweck,2000) in una scuola materna è tesa a dimostrare tre scuole di pensiero in rapporto al modo d'educare con tre tipologie di feedback diversi utilizzati.
Ella divisero i bambini in tre gruppi. Nel primo gruppo la maestra esprimeva un feedback che indirizzava gli scolari all'uso di strategie differenti.
Nel secondo gruppo l'attenzione era rivolta a rilevare un comportamento adatto, chiamato “feedback sul risultato”.
Infine col terzo gruppo si voleva constatare in che modo una critica sul complesso della persona (feedback sulla persona) influisse sul comportamento successivo.
I risultati hanno confermato sostanzialmente le scoperte precedenti, che confermavano quanto la critica incentrata sulle strategie producesse risultati più soddisfacenti. Quest'ultima tecnica infatti tende a favorire maggiormente un'emancipazione dei bambini perché permette di usare metodi di risoluzione dei problemi in maniera più profonda ed elaborata.
In tal ambito veniva dato maggior risalto all'impegno e al lavoro come mezzi indispensabili ad acquisire padronanza.
Per quanto riguarda il terzo gruppo viceversa si rilevavano le risposte peggiori rispetto agli altri due: si evidenziò come gli allievi conseguirono una maggior sfiducia nelle proprie capacità allorquando si palesavano delle difficoltà e manifestando risposte di impotenza e sentimenti fortemente negativi.
Il feedback sulla persona sembra pertanto annoverare risultati negativi in quanto agisce come un giudizio sulla persona. Gli individui che sviluppano una teoria dell'entità sembrerebbero, visti questi risultati, quelli più fragili.
Questa tipologia di persone, interiorizzerebbero dai genitori che il loro valore è sotteso da un buon comportamento oppure dall'ottenimento di buoni risultati scolastici. Per ottenere il loro amore però rinuncerebbero alla specificità che li caratterizza, con la conseguenza a conformarsi ai desideri dei genitori compiacendoli con comportamenti desiderabili.
Le istituzioni scolastiche forse dovrebbero tenere in dovuta considerazione questi aspetti.
Un progetto educativo dovrebbe occuparsi innanzitutto di modificare le false credenze degli individui, le loro convinzioni demotivanti e utilizzare strategie in grado di far acquisire la necessaria padronanza delle loro abilità agli studenti.
Personalmente sono sostenuto dal convincimento che ogni persona sia una combinazione inimitabile di ricchezze, abilità e capacità e credo nella necessità di concepire un educazione interessata a riconsegnare all'individuo la possibilità di compiere la sua “chiamata”.
La conseguenza di ciò è l'affiorare di un essere umano più soddisfatto di sé e forse potrebbe ottimisticamente contribuire al miglioramento della convivenza sociale dal momento che, la sua partecipazione al bene comune, contribuirebbe verosimilmente a trovare un senso alla sua vita.
Probabilmente mai come oggi l'uomo, inserito in un sistema spersonalizzante, sente più forte questa esigenza, tuttavia esprimere se stessi e partecipare attivamente alla vita comunitaria, sentendosi utili, darebbe un maggior significato all'esistenza umana.
I programmi scolastici a mio avviso dovrebbero contemplare una formazione dei professionisti aggiornati sulle nuove ricerche e in grado d'indirizzare gli studenti verso gli obiettivi più utili per loro.
Così come ha dimostrato Dweck è possibile ottenere risultati migliori per gli studenti, contemplando modalità educative alternative ai modelli che vanno per la maggiore, ella infatti ipotizza che gli studenti orientati alla padronanza e quelli orientati all'impotenza abbiano sostanzialmente obiettivi differenti.
Ciò può prevedere un risalto maggiore alle motivazioni, come costrutto fondamentale indispensabile all'apprendimento.
Far nascere una motivazione sentitamente intrinseca, risulta quindi premessa indispensabile per favorire un orientamento alla padronanza.
La prassi potrebbe essere quello di riportare ( nei casi dei soggetti con motivazione estrinseca) il controllo decisionale dall'esterno verso l'interno consentendo perciò di creare le condizioni affinché un soggetto possa autodirigersi efficacemente.
La distinzione tra motivazione estrinseca ed intrinseca è importante sotto quest'ottica ma non completamente esaustiva. White (citato in De Beni, Moè, 2000) infatti estende il concetto di motivazione intrinseca, dimostrando in quale modo la curiosità e il bisogno di esplorazione non siano semplicemente la soddisfazione di un desiderio, bensì la volontà di padroneggiare e controllare l'ambiente per sentirsi efficaci e competenti.
Tale esigenza viene nominata effectance, un bisogno che convalida la tesi della motivazione intrinseca, in quanto si manifesta spontaneamente anche in assenza di rinforzi, addirittura nel caso in cui il comportamento venga punito. Conseguentemente la bassa percezione di sentirsi capaci può far sentire il bambino come controllato dall'esterno facendo diminuire la motivazione all'effectance.
In proposito Harter (citato in De Beni, Moè, 2000) ha proposto una teoria interessante ipotizzando che qualora il bambino venga sostenuto già ai primi tentativi di padronanza ottenendo rinforzi positivi, tende a sviluppare una maggiore emancipazione in proiezione futura da questi feedback esterni. Esso infatti tende ad interiorizzarli, diventando autonomo dall'approvazione altrui.
Al contrario se il bambino viene scoraggiato o non sostenuto in questi primi tentativi di competenza, egli sentirà il bisogno di continue approvazioni esterne, sviluppando in questo caso, un tipico atteggiamento che Dweck definirebbe entitario.

Conclusioni

Queste riflessioni sullo sviluppo della motivazione intrinseca possono risultare fondamentali per un insegnante. Ma un ruolo fondamentale lo svolgono i genitori rimasti in gran parte ancorati ad un sistema di stampo pavloviano che prevede sostanzialmente i classici premi e punizioni per regolare il comportamento.
Il sistema scolastico forse, dovrebbe farsi portavoce e tramite di un educazione più consapevole dove gli insegnanti, in sinergia con i genitori, si occupassero di questi aspetti, visto che la responsabilità educativa non può esaurirsi esclusivamente negli edifici scolastici.
Di conseguenza se venissero concentrate più energie verso un emancipazione vera, i futuri adulti avrebbero maggiori possibilità di cercarsi un benessere duraturo non solo materiale ma anche psicologico e spirituale.

Una motivazione interiorizzata può essere ottenuta nell'eventualità che l'ambiente sociale favorisse la giusta indipendenza e un rinforzo dell'autonomia. Essa sarebbe inizialmente sostenuta con rinforzi adeguati da parte dei soggetti educativi e una volta appresi farebbero parte del bagaglio di conoscenze dell'individuo, finalmente indipendente da sostegni esterni perché comprenderebbe come premiarsi e punirsi.

Wiggins (1990) infine invita ed auspica ad un cambio di prospettiva: “Si tratta di accertare non ciò che lo studente sa, ma ciò che sa fare con ciò che sa”.
Queste prospettive possono gettare le basi per un processo educativo più centrato sulle abilità e caratteristiche dell'allievo. Sentendosi al centro dell'interesse e maggiormente responsabilizzato, l'individuo può essere più motivato a seguire un percorso di crescita, se percepisce l'insegnante come un sostegno capace di guidarlo alla sua "individuazione". Oltre ad essere meno assoggettato alla pervasività di una valutazione fine a se stessa, l'allievo è accettato per quello che è per le peculiarità e potenzialità, in un processo che ha come scopo finale il disvelamento della sua identità.


Bibliografia



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De Beni R., Moè A. (2000). Motivazione e apprendimento. Trento:Il mulino

Dweck C. S. (2007). Teoria del sé. Intelligenza, motivazione, personalità e sviluppo. Trento: Erikson.

Gardner H. (1987). Formae Mentis. Saggio sulla pluralità dell'intelligenza. Milano: Feltrinelli.

Moè A. (2010). la motivazione. Bologna: Il Mulino.

Riesman, D. (1950). La follia solitaria. Bologna. Il Mulino.