mercoledì 13 luglio 2011

Filosofia del libero mercato

Il presupposto filosofico del libero mercato, nasce come esigenza del capitalismo di esercitare un controllo diretto sull'economia. Alla base di ciò troviamo l' ideale utopico per cui, attraverso la maggiore competitività, ogni uomo grazie ad un controllo diretto dei propri capitali possa effettivamente produrre, grazie alle sue personali competenze, una maggiore ricchezza personale. Sarebbe bello, se ognuno potesse realizzare il proprio potenziale lavorativo in un sistema davvero concorrenziale. Purtroppo, dietro la propaganda liberista esiste un’ aspetto che non viene rimarcato ma volutamente occultato. Chi propugna pomposamente queste idee omette un punto essenziale e fondamentale: generalmente dietro tale ideale si celano grandi capitalisti che tendono ad accentrare risorse e potere sempre più nelle loro stesse mani e atti a creare dei veri e propri monopoli. Tutto molto scontato e risaputo ma è bene sempre rimarcarlo. Ipoteticamente si partisse tutti da zero si potrebbe forse generare una migliore propagazione del benessere anche se, è nell'essenza e nella natura del capitalismo la concentrazione della maggior quantità di beni nelle mani di un manipolo d'individui. Questo perché, fondamento della sua riuscita, è la competitività fra esseri umani. Tale concorrenza si traduce in effetti su un accentuazione dei più bassi istinti dell'essere umano, sostituendo i più elementari principi etici con i più rozzi e beceri interessi personali. A livello filosofico si potrebbe affermare che il potere, la voglia di prevaricare e accumulare, si impossessa dell'uomo rendendolo un fantoccio, una vittima della sua stessa natura predatrice. Invero coloro che pensano all'uomo come essenzialmente egoista, dimenticano che la base di moltissime società del passato, ma anche odierne, erano fondate su una visione più sociale della vita comunitaria. Un caso emblematico è quello dei Nativi americani. Senza volerli idealizzare, come spesso accade in certe derive New Age, molti nativi disponevano di una base democratica fondata sulla partecipazione di tutta la tribù alle decisione di interesse collettivo. Un esempio emblematico è quello degli indiani della costa Nord orientale (gli Irochesi) dove le decisioni politiche erano tenute da un consiglio formato dalla collettività dei clan e dove si discuteva, talvolta anche per giorni, fino a che tutti i partecipanti erano d’accordo. Si doveva in questo senso limare le proprie istanze, sino a che si giungesse ad una decisione che soddisfasse tutti. Ho citato il caso degli irochesi, ma questa base democratica era presente in molte società di quell'area culturale. Di estremo interesse è poi l' organizzazione sociale. A discapito dei luoghi comuni, generalmente le donne non erano sottomesse anzi, molto spesso la proprietà dei beni apparteneva alla famiglia delle donne, così come la gestione dei lavori agricoli. Invece l' organizzazione politica e la caccia competevano all'uomo. Come detto nel caso irochese, la donna nominava un uomo che si occupava degli interessi del proprio clan e la sua investitura poteva essere revocata in ogni momento se il suo apporto alla causa del clan non era utile. Addirittura alcune società di matrice individualistica, caratterizzate da elevata stratificazione sociale come quella degli Tlingit, era presente l' equivalenza delle nostre ricche famiglie di discendenza,ma vi era una diversa concezione dell'accumulo. In tal cultura venivano infatti organizzate cerimonie annuali o straordinarie, chiamate Potlach dove, per cause diverse, venivano ridistribuiti i beni delle famiglie potenti a quelle meno abbienti attraverso la somministrazione di beni sia alimentari, che materiali o spirituali. In tal contesto, quindi si esaudiva l'istanza individualistica incentrata sulla libera espressione delle proprie forze, capacità e competenze. Principi sviluppati grazie al commercio, alla caccia, alla pesca e all'arte. E nel contempo si soddisfaceva anche l' aspetto sociale e solidaristico, grazie alla distribuzione dei beni, configurandosi così, come una società dove gli aspetti legati ad un necessario individualismo e quelli social- integrativi venivano appagati in maniera equa. Fatta questa breve digressione possiamo considerare due aspetti fondamentali delle pecche propagandate dai fautori del liberismo: 1. Mistificare l'uso della parola libertà, tralasciando il fatto che, grazie a questa parola, si fornisce mano libera agli interessi dei grossi capitalisti, a discapito delle classi subalterne, concepite come soggetti da sfruttare per i propri interessi egoistici. 2.La liberalizzazione come fattore d' efficienza e minor spesa sociale per gli stati, anche nei settori di interesse pubblico, alla lunga non si traduce in ciò, ma esattamente nel suo opposto. Infatti è evidente come nel caso italiano le varie privatizzazioni dei settori bancari ferroviari, del settore siderurgico e di molte aziende di stato abbia prodotto un' impoverimento generale. All'epoca si teorizzava come queste aziende erano continuamente in perdita, facendo intendere che strutturalmente non potevano reggere senza grosse perdite. Su questo ci sarebbe da obiettare. In primo luogo perché se un azienda è gestita in malo modo è naturale che una circostanza simile accada. In secondo luogo perché se la mentalità è quella dello sperpero di risorse siccome "tanto paga lo stato”, si prefigura un problema d' ordine culturale anziché strutturale. Infatti un' azienda gestita con senso civico, per il bene comune e dove i lavoratori svolgono al meglio le loro mansioni, consapevoli dell'importanza che il bene collettivo si traduce inevitabilmente in quello proprio, non può che delinearsi come qualcosa di realmente produttivo e allo stesso tempo sociale. Ma soprattutto, anche nel caso delle imprese pubbliche, il profitto non costituisce l' obiettivo primario ma è l'interesse collettivo (come scopo sociale) ad essere predominante. Inoltre, nel lungo periodo la tesi della maggior efficienza e minor spesa non ha ragione d' essere. Questo perché il capitalista ragiona in termini di massimizzazione dei profitti. Il plusvalore di concezione marxista viene si investito, ma in gran parte, per speculazioni personali e solo lo stretto necessario per gli investimenti. Mentre in un azienda di Stato con tutti i problemi riscontrati (torno a ripetere, soprattutto di ordine culturale) tale plusvalore è usato nell’investimento di altre attività pubbliche generando di conseguenza un benessere alla società intera. Mentre nelle forme liberaliste specialmente nelle concentrazioni monopolistiche per ottenere la massimizzazione del capitale, si prefigura l' esigenza, si di investire, ma soprattutto di tagliare i costi perché il margine di guadagno aumenti esponenzialmente. E cosa sono questi costi? I costi maggiori riguardano la voce dei dipendenti e quella della manutenzione. Non è un caso (guardiamo la situazione Italiana degli ultimi 20 anni) se grandi aziende pubbliche, contenitori di grandi masse lavoratrici, oggi invece diventate pubbliche o semi-pubbliche, stiano diminuendo drammaticamente la forza lavoro in maniera sempre più repentina. Questa mancanza di lavoro si traduce così in una minore ricchezza per i singoli, dove il lavoro si configura come un offerta al ribasso e che inevitabilmente produce una progressiva perdita di diritti lavorativi. In tal contesto viene a mancare uno dei capisaldi del libero mercato: maggior ricchezza per tutti. Una società di questo genere dove la politica è stata completamente esautorata dal mercato e dove le decisioni importanti non sono decise ne dal popolo ne dai suoi rappresentanti politici non può che scadere in forme di convivenza simili alla schiavitù. Il benessere ingenerato non può che produrre schiere di poveri sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi. E qui emergono tutte le contraddizioni della liberalizzazione. In settori di primaria importanza come i trasporti, la sanità, il sistema pensionistico che dovrebbero consegnare un servizio ai cittadini e per i cittadini come primo obiettivo, si contrappone la logica del massimo profitto in mano a poche persone. Nessuno vuole negare un' iniziativa d' impresa, ma, in settori così importanti, stiamo assistendo ad una vera degenerazione sociale che avrà sempre più gravi ripercussioni sul benessere e sulla buona convivenza sociale.