venerdì 25 marzo 2011

Educazione al sentire

Oggi sono sempre più le voci che si levano a sostegno di una maggiore integrazione dei vari tipi d'intelligenza nell'essere umano, anche se la modernità, ha costruito le sue fondamenta sull'aspetto razionale dell'intelletto scisso dalle emozioni. Attualmente alcuni psicologi come Goleman (1997) hanno sottolineato l'importanza degli aspetti emotivi nei processi d'apprendimento. Dello stesso avviso è Carl Rogers che auspica una riconciliazione tra ragione e sentimento. Secondo la sua esperienza, maturata nella terapia centrata sul cliente, egli afferma: “questa separazione della ragione dal sentimento, è uno dei primi miti che crollano nell'approccio centrato sulla persona. Gli individui scoprono se stessi comunicando con il proprio essere totale ed esprimendo le proprie esperienze, non con qualche fredda rappresentazione intellettuale di esse” (Bruzzone, 2007). Ciò che Rogers (1976) propone nei gruppi di incontro sembra essere auspicabile anche nelle aule didattiche. L'autore era già all'epoca consapevole che l'educazione subita nei primi anni scolastici diventa un'insana abitudine, difficile da estirpare; tuttavia ottimisticamente incita a non concludere ogni sforzo per favorire una nuova umanizzazione, siccome in gioco vi è la stessa salvaguardia dell'umanità.1 In questa visione olistica, l'educazione ha lo scopo di favorire contesti d'apprendimento e climi relazionali dove la persona, nella sua totalità, possa esprimersi e dove i due aspetti del razionale e del sentimento fondendosi, si aiutano reciprocamente. Io credo che la parte razionale debba svolgere una funzione di indirizzo e di supporto per assecondare quella emotiva. La parte emotiva incidere spesso in modo significativo sulle decisioni, sugli obbiettivi e sulle motivazioni, e reclama a gran voce di essere presa in considerazione. Carl Jung (1997) rileva che le emozioni represse, agiscono in forme e modi che possono risultare dannosi per l'integrità fisica e mentale. La definizione che egli ci propone è il concetto di ombra ovvero una serie di emozioni rimosse e non riconosciute dal soggetto che agiscono autonomamente minando la volontà dell'individuo. Il cuore, spesso confuso con il sentimentalismo e i buoni sentimenti, è assoggettato alla retorica e al pregiudizio. Gli studiosi di recente generazione dimostrano invece che possedere una buona intelligenza emotiva permette di raggiungere risultati migliori (Damasio). E' dimostrato come i sentimenti possano influenzare l'apprendimento, quindi gli apparati scolastici in sinergia con i genitori non dovrebbero sottovalutare tale aspetto . Un atteggiamento di approvazione e di incoraggiamento renderanno i bambini più ottimisti, fiduciosi, curiosi e le piccole sconfitte non andranno ad inficiare i risultati futuri, perché verranno percepiti come semplici segnali per un necessario cambio di strategia. Al contrario coloro che nell'infanzia hanno subito un'educazione contrassegnata da sfiducia o da un eccessivo “ lasciar fare” affronteranno le avversità con un atteggiamento esitante e saranno pervasi da un senso d'inutilità. Per Branzelton, (citato in Goleman, 1997) un famoso pediatra di Harvard, ciò che rende un bambino pronto ad affrontare un percorso scolastico efficace sono le conoscenze procedurali ossia il sapere come imparare. Egli stila a riguardo una serie di abilità: 1.Fiducia: il bambino ha un senso di padronanza sul proprio corpo, sul proprio comportamento, sul proprio mondo; questa consapevolezza, gli permette di avere maggiori probabilità di riuscita in ciò che intraprende; 2.Curiosità: la sensazione che la scoperta sia un attività positiva e fonte di piacere; 3.Intenzionalità: il desiderio e la capacità di essere influenti e perseveranti. 4.Autocontrollo: ovvero la capacità di modulare e di controllare le proprie azioni 5.Connessione: la capacità di impegnarsi con gli altri, basata sulla sensazione di essere compresi e di comprendere gli altri. 6.Capacità di comunicare: il desiderio e la capacità di scambiare verbalmente idee, sentimenti e concetti con gli altri. 7.Capacità di cooperare: l'abilità di equilibrare le proprie esigenze con quelle degli altri in un'attività di gruppo. Tali abilità o alcune di esse possono essere maggiormente spiccate in alcune persone ma è anche vero che queste capacità possono essere imparate e, la famiglia di riferimento, influisce non poco in questa crescita. Uno dei concetti fondamentali che sembrano fare la differenza nella riuscita sociale è quello di empatia. Edith Stein è stata la prima a svolgere ad ampliare questo argomento. Ella definisce empatia la capacità di una persona di cogliere l'esperienza del vissuto altrui e della sua personalità , senza però identificarsi totalmente, rimanendo quindi, un osservatore più efficace.2 L'atto empatico a differenza della simpatia che opera secondo un effetto discriminatorio tendente all'assimilazione o all'esclusione, si caratterizza per una comprensione e accettazione incondizionata dell'altro. In quest'ottica l'individuo empatizzato, attraverso la riconoscenza dell'altro, diviene consapevole della propria unicità irripetibile e preziosa. Il soggetto empatizzante pur riconoscendo l'altrui alterità riesce a percepirne paure, disagi e frustrazioni. Precondizione di una buona empatia è l'essere dotati di buone doti introspettive. Infatti la persona che sa riconoscere e identificare i propri stati interni ha gli strumenti per una migliore comprensione dell'animo umano. A dispetto di una psicologia di “testa” che tende a stigmatizzare e incasellare i comportamenti umani in un disparato ma limitato contesto di categorie, l' empatia favorisce l'individuazione della persona per quello che è, scevra da atteggiamenti giudicanti e valutativi. L'atto empatico contempla necessariamente un clima relazionale approntato sulla fiducia e sull' accettazione e ha come risultante quella che Buber (2003) chiama conferma. Questo concetto si riferisce ad una relazione fra esseri umani che nella reciprocità del rapporto riconoscono la loro originale diversità. L'empatia inoltre comporta l'emergere di una nuova figura, il noi. In questo contesto le individualità, l'io e il tu, rimangono ben distinti e non vi è mai completa identificazione. L'immedesimazione, non essendo totale, permette di rimanere ognuno nella propria originarietà ma, nello steso tempo consente di arricchirla, in quanto il contatto con un altro sé pregiudica un'integrazione delle esperienze soggettive altrui. Per Rogers l'empatia è più un processo che uno stato e consiste “nella capacità di essere compagno fiducioso nel mondo interiore dell'altro” ovvero, nel suo percorso interiore di cambiamento. (Bruzzone, 2007, p.111) Il valore dell'atto empatico si connota per due peculiari caratteristiche: favorire la crescita e il cambiamento. L'individuo non sentendosi giudicato o interpretato come portatore di un comportamento stereotipato, si sente più libero di esprimersi secondo il proprio sentire e percepisce il suo mondo come dotato di valore, consentendogli di gettare le basi verso un miglioramento e un mutamento percepito come significativo. Nonostante quest'epoca sia contrassegnata sempre più dall'omologazione e dall'eterodirezione, dove la singolarità non è apprezzata a meno che non si tratti di individui eccezionali (o ritenuti tali), l'empatia può essere un efficace mezzo per contrastare questa tendenza spersonalizzante. La competenza affettiva piuttosto che delinearsi come una panacea contro un tutti i mali, può diventare propedeutica verso una nuova convivenza civile, dove le singole individualità possano manifestarsi e tendere verso una società volta al benessere. Il neurofisiologo Damasio afferma che le emozioni sono necessarie e influenzano inevitabilmente la capacità di ragionare. Egli ne sottolinea l'importanza come elementi che contribuiscono alla funzionalità del sistema cognitivo ed evidenzia l'interconnessione esistente tra ragione e sentimento, questa complementarità coinvolge a livello neurofisiologico, le due parti dell'emisfero cerebrale. L'essere umano ha bisogno di educare sinergicamente gli affetti e l'apparato cognitivo per un percorso di crescita e di benessere personale che possa permettergli di sviluppare adeguatamente le proprie potenzialità. Nonostante grandi pensatori abbiano capito quanto sia importante curare in egual modo cognizione e sentimento, continua a prevalere la tendenza a sottovalutare l'aspetto emotivo. Ogni persona dovrebbe dare voce ai propri sentimenti, attraverso la parola o la scrittura. Con queste tecniche è possibile comprendere meglio ciò che si prova, rendere tangibile un emozione e fare chiarezza nella propria interiorità per capire ciò che ci serve veramente per essere appagati, imboccando il percorso più consono ad esprimere in toto noi stessi. La simbolizzazione degli stati interni non deve essere mutuata da qualche persona influente che altrimenti contrasterebbe una sana ed efficace auto-comprensione (Corradi, 2003). Infatti una persona che non riuscirà ad esprimere ed a comprendere le emozioni, i sentimenti, le passioni, oltre ad essere meno competente e consapevole, sarà anche più soggetta al dominio altrui. (Gardner, 2003). Lo svuotamento ed il misconoscimento delle emozioni la loro banalizzazione , nel complesso contribuiscono notevolmente alla vendita di emozioni senza implicazioni ne sforzi, ma con un impoverimento dell'universo intimo dell'essere umano che viene impoverito. Bibliografia Buber (2003). Tra il bene e il male. Bruzzone D. (2007). Carl Rogers. La relazione efficace nella psicoterapia e nel lavoro educativo. Roma: Carocci. Damasio A.(2003). Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello. Milano: Adelphi. Gardner H. (1987). Formae Mentis. Saggio sulla pluralità dell'intelligenza. Milano: Feltrinelli. Goleman, D.(1997). Intelligenza emotiva. Milano: Rizzoli.

giovedì 10 marzo 2011

Tendere all'autorealizzazione





Introduzione

Spesso si legge, quasi esclusivamente in rete, di come l'individo sia soggetto al dominio di un elité di persone, un oligarchia, che tenta in tutti i modi di controllare l'uomo per renderlo un individuo passivo, concentrato a seguire squalificanti programi televisivi e sport in modo da distrarsi dai problemi reali. Addirittura si ipotizza come una razza o più razze aliene controllino l'essere umano per i più svariati interessi. Non voglio negare come alcune di esse siano teorie affascinanti e valide, che seguo tra l'altro con un partecipato interesse senza negarmi però, un minimo senso critico in modo da potermi districare ed orientare nel magma delle informazioni incontrollate e talvolta poco serie. Temo che tali considerazioni, seppure propedeutiche ad acquisire maggior consapevolezza e punti di vista diversi e divergenti, tendano a dequalificarci come esseri umani in modo che, se la colpa è fuori di noi, possiamo liberarci delle nostre personali responsabilità e puntare il dito su qualcun'altro al motto "i mostri sono loro", potendo così rimanere sostanzialmente uguali, senza tentare minimamente un cambiamento delle nostre abitudini. Siamo tutti propensi a cambiare la società, gli altri, i governi ma difficilmente sentiamo una responsabilità personale sulla nostro situazione. Oppure, spesso si fanno denunce senza proporre qualche soluzione efficace come se, la semplice consapevolezza sia in grado, da sola, di cambiare qualcosa. E' mia opinione che un cambiamento seppur minimo possa avvenire attraverso un lavoro su noi stessi e in quei contesti, come la scuola, che possono permettere di portare a compimento la "chiamata personale" degli individui, facendosi promotrice di una società più sana e democratica. Per questo credo sia importante concentrarsi non tanto sull'aspetto esclusivamente razionale o nozionistico, ma sulla possibilità che ogni soggetto possa divenire ciò che è, in modo da tendere ad uno dei bisogni fondamentali dell'uomo: la propria autorealizzazione.


Motivazioni e attribuzioni del sé

Uno dei presupposti fondamentali di ogni sistema educativo, ciò che dovrebbe stare a cuore ad ogni insegnante, è rendere le persone in grado di utilizzare le proprie capacità al meglio, e capire di quali potenzialità siano dotate. Al di là delle retoriche, dovremmo chiederci se il compito del sistema educativo sia quello di “riempire” di concetti gli studenti, di renderli funzionali esclusivamente al mondo del lavoro, come se fossero automi senza emozioni, aspirazioni e sentimenti. Lo scopo dell'educazione non può quindi prescindere dalle esigenze di autonomia, benessere, dagli interessi personali, dai desideri, dalle aspirazioni e dai bisogni del soggetto. Una struttura scolastica più umana non può prescindere da tali importanti variabili, e una società consapevole e più funzionale dovrebbe favorire, a mio avviso, l'auto-realizzazione delle persone.
All'interno del sistema scolastico si tende generalmente sostenere miglioramenti di tipo quantitativo usando strumenti come i giochi educativi e i modelli didattici. Senza tenere conto che tali strumenti, da soli, non possano garantire un adeguato apprendimento. La visione che accomuna la mente dell'uomo ad un semplice elaboratore di informazioni, non contempla gli aspetti motivazionali del soggetto e non tiene nella giusta considerazione l'esistenza di un comportamento motivato e di un comportamento passivo. Per capire meglio ciò, si può fare riferimento alla teoria dell'autodeterminazione di Deci e Ryan (1985) basata su una scala motivazionale che va dal gradino più basso a quello più alto.
Nel primo scalino abbiamo il livello più basso di motivazione, quello meno “sentito”, rappresentato dal senso di dovere, caratterizzato da un comportamento di tipo obbligatorio, in cui la motivazione è avvertita come determinata dall'esterno (motivazione estrinseca). In questo caso il soggetto agisce ed è regolato in base ad un sistema di premi e punizioni tipica impostazione delle teorie comportamentistiche, di cui Skinner ne è il rappresentante più emblematico.
All'altro polo invece abbiamo la massima motivazione, ovvero l'obbiettivo viene percepito come parte di sé ed è importante per la propria formazione (motivazione intrinseca), (Moé, 2010).
Molto spesso “l'istruzione” sembra associarsi alla motivazione e viene subita piuttosto che essere percepita come fonte di crescita e di miglioramento del sé. Il sistema educativo privilegia, come fu rilevato da Rogers , l'adeguamento degli studenti alle richieste dell'istituzione piuttosto che la promozione del pensiero autonomo, critico e divergente.
L'identificazione tra educazione e valutazione e la concentrazione eccessiva e ossessiva sugli aspetti nozionistici (come se questi da soli esaurissero il compito educativo) diverge da ciò che Rogers ad esempio propone, ossia di focalizzare le risorse formative sulle tecniche di appropriazione di adeguati strumenti euristici e procedurali (Bruzzone, 2007). Questi strumenti permettono di giungere alla scoperta di nuove teorie, alla risoluzione di problemi, grazie all'uso dell'intuito e alla capacità prettamente umana di utilizzare “scorciatoie” che permettono di immaginare situazioni nuove e giungere a soluzione creative.
E' interessante evidenziare, a questo proposito, l'importante contributo di Gardner (1987) che fornisce una visione meno monolitica dell'intelligenza. Egli critica la visione classica dell'intelligenza come immutabile e unipolare, dove i test del QI la fanno da padrone, individuando sette “talenti” differenti. Lo studioso, opponendosi alla mentalità che divide le persone in due categorie distinte (intelligenti e non), estende la classica concezione dell'intelligenza, quella verbale e quella logico-matematiche, aggiungendo altri cinque attitudini. Tra queste egli include la capacità spaziale, ossia l'abilità di percepire e rappresentare gli oggetti visivi anche in loro assenza, tipica degli artisti; le abilità interpersonali tipiche di coloro che sono capaci di comprendere gli altri, di entrare in empatia e di percepire gli stati d'animo altrui; l'intelligenza intrapersonale ovvero quell'abilità che permette di conoscere se stessi, utile ad avere una crescente autoconsapevolezza; quella cinestetica rilevabile principalmente nella padronanza e coordinazione dei movimenti del corpo e infine l'abilità musicale consistente nel riconoscere variazioni di tempi, timbri e toni.

L'importante distinzione di Gardner permette di focalizzare meglio uno dei compiti formativi di maggior rilevanza. Un evento formativo che possa ritenersi significativo non può prescindere dal dedicare forze e impegno alla comprensione delle attitudini che ogni individuo possiede. Non può esimersi perché, capire l'insieme dei talenti propri di una persona, è essenziale per favorire lo sviluppo soggettivo e la capacità di esprimersi in base alle proprie caratteristiche.
Si è assistito, con l'avvento della tecnica, ad uno sviluppo inimmaginabile della tecnologia che ha inevitabilmente posto in secondo piano le capacità interiori in quanto difficilmente misurabili. Oggi in realtà si rileva un nuovo interesse per tutto ciò che riguarda genericamente l'anima, i sentimenti e le emozioni, anche se è utile scorgere in tali aspetti una valorizzazione di stampo prevalentemente consumistico.
Se abbiamo incrementato la scienza fino a spingerci a livelli impensabili per l'uomo pre-moderno, per quanto riguarda la formazione umana e la sua personalità egual sviluppo non è avvenuto. La personalità, che si forma necessariamente nell'interazione sociale, subisce di conseguenza l'imperante l'influenza della sofistificazione tecnologica. Il mancato progredire di queste due polarità non può che creare degli squilibri nell'integrità umana.
Come rileva Rogers: “lavoriamo assiduamente per liberare l'enorme energia dell'atomo e il nucleo dell'atomo. Se non dedichiamo altrettanta passione- e anche altrettanto denaro- alla liberazione delle potenziali capacità individuali, la grande discrepanza fra il livello delle nostre risorse fisiche e quello delle nostre risorse umane ci destinerà a una distruzione meritata e universale” (Bruzzone 2007).
Capire e incentivare l'autonomia realizzativa permette l'affrancarsi dalla necessità di essere guidati (eterodiretti) e consente di prendere coscienza delle proprie possibilità e di sviluppare la necessaria padronanza per essere liberi dai condizionamenti che operano come pressioni esterne. Non è un caso che l'opinione altrui abbia così forza sull'uomo sociale e che le varie manipolazioni a cui siamo soggetti con i mass media condizionino in modo significativo il nostro comportamento. Questa vera e propria manipolazione viene chiamata da David Riesman (1950) eterodirezione che definisce: “un atteggiamento attivo nella ricerca della conformità”.
L'insegnamento scolastico non può prescindere dalla formazione umana intesa nel suo complesso e da un educazione che permetta e incoraggi la presa di coscienza delle peculiarità personali. La consapevolezza del proprio sé consentirebbe (ipoteticamente) autonomia dal giudizio altrui e renderebbe possibile concentrare le energie sulle modalità d'apprendimento e non solo su contenuti e nozioni, fornendo agli individui l'opportunità di imparare ad imparare. Questo approccio suggerisce di adottare e di utilizzare tecniche diverse d'apprendimento a seconda degli stili cognitivi, delle abilità possedute e dalle specifiche modalità d'apprendimento degli alunni, riportando il soggetto discente al centro del percorso educativo. In quest'ottica l'aspetto valutativo ha la sua importanza ma solo come strumento utile a misurare un percorso di crescita.
Occorre sottolineare a questo proposito, che la percezione del voto scolastico ha un importanza particolare. E' importante evidenziare come gli studenti avvertano questo feedback in maniera diversa; alcuni, ad esempio, percepiscono il voto come una valutazione sulla persona e vivono il compito come una conferma della loro intelligenza o della loro inettitudine.
Carol Dweck (2007; p. 19) definisce questo stile: la teoria dell'intelligenza come entità, ovvero il percepire le proprie capacità cognitive similmente ad un tratto fisso che non può cambiare perché giudicato immodificabile.
La studiosa definisce invece coloro che possiedono una visione meno stereotipata dell'intelligenza come orientati alla padronanza. Per questi soggetti l'intelligenza è tutt'altro che un tratto fisso ma qualcosa che è possibile modificare e incrementare nel tempo. Essi focalizzano gli sforzi sul lavoro, sull'uso di strategie diverse, sull'impegno e sulla conseguente previsione d'imparare qualcosa che li farà crescere.
Un insegnante funzionale dovrebbe necessariamente fornire una prospettiva di miglioramento e sviluppo delle abilità preesistenti.
Ciò si configura come un compito gravoso per il fatto che comunemente si è abituati a concepire l'intelligenza come un tratto fisso e poco modificabile.
Naturalmente questo dipende dal tipo d'educazione impartito dai genitori e ritengo che l'immaginario comune sia sostenuto da credenze che concedano troppa fiducia ai test che misurano il QI.
Carol Dweck (2007) come abbiamo visto, ha individuato due teorie del sé, relative a come gli studenti percepiscono la propria intelligenza: la teoria dell'entità e quella incrementale.
La prima categoria si limita generalmente a dimostrare agli altri e a se stessi, di essere capaci impegnandosi in compiti che (per predisposizione) confermino le abilità possedute. Ciò presuppone che difficilmente, la persona con tale concezione, si impegnerà in compiti complessi o ritenuti tali perché le sfide sono ritenute una minaccia all'autostima.
La seconda categoria percepisce la propria intelligenza sostanzialmente flessibile perché non avvertita come un tratto fisso pertanto, grazie all'impegno, è possibile incrementarla e raggiungere gli obiettivi agognati.
Essi risultano meno preoccupati nel risultare intelligenti e capaci e si concentrano maggiormente sull'obbiettivo d'imparare qualcosa di nuovo in funzione di un aumento della loro padronanza.
Sotto l'impulso della padronanza le persone raccolgono le energie nel cercare strategie capaci di superare le difficoltà, aumentare le competenze e padroneggiare compiti ogni volta più complessi.
Per questi individui perciò l'eventuale insuccesso rappresenta una sfida che può, se superata, condurre ad una grande gratificazione. I possessori di una teoria dell'entità, per l'autrice maturano quella che definisce un “impotenza appresa” ossia un tipico atteggiamento che un nutrito numero di studenti hanno verso le difficoltà e gli insuccessi. In questi casi un compito complesso richiama reazioni votate a sminuire le proprie capacità intellettive.
I soggetti di questa categoria tendono a denigrarsi o autosabotarsi per conservare la propria autostima. Per loro gli obiettivi preminenti sono quelli che permettono di ottenere giudizi positivi sul proprio operato evitando, se possibile, quelli negativi.
Da queste considerazione si può dedurre che la differenza tra i due stili è dettata da ciò che gratifica maggiormente: se la gratificazione è estrinseca e contrassegnata dall'importanza data al giudizio altrui o dalla possibilità di ricevere dei premi, si ha uno stile entitario.
Nell'altro caso la soddisfazione nasce da un bisogno interiore, contrassegnato dal sentirsi in grado di superare gli ostacoli, acquisire sempre maggior capacità e sono definibili come possessori di uno stile orientato alla padronanza.
La psicologa, attraverso le sue ricerche, ha constatato che la differenza tra i due stili sia da imputare al significato che le due diverse categorie assegnano all'impegno.
Per gli “entitari” l'impegno è sintomo di mancanza di abilità e l'intelligenza si dimostra quando i problemi e i compiti vengono risolti nel più breve tempo possibile.
Per gli incrementali invece l'impegno è la condizione necessaria per ottenere dei successi e la consapevolezza di come solo attraverso di esso si possa crescere.
Dweck dimostrò in classe questa ipotesi per mezzo di test matematici. Individuò un sufficiente numero di studenti che provenivano da ripetuti insuccessi scolastici e che svilupparono una risposta d'impotenza di fronte alle difficoltà. Suddivise gli alunni in due gruppi uguali. Al primo, fu assegnato un docente che focalizzasse maggiormente l'attenzione sui successi favorendone l'ottenimento.
Invece il secondo gruppo ricevette un insegnamento definito “attributivo”. I professori spingevano i loro studenti a capire le cause dei successi o degli insuccessi e veniva premiata la profusione dedicata all'impegno.
Dweck constatò in poche sessioni che i soggetti indirizzati ad attribuire le cause all'impegno, potevano concentrarsi maggiormente sul compito ottenendo risultati di volta in volta migliori.
Al contrario i componenti del gruppo “orientato alla prestazione” continuava a dedicare un attenzione maggiore ai successi e agli insuccessi,come conferma o meno della propria intelligenza, in questo caso quello che più importava loro era dimostrare le abilità possedute, palesando come la motivazione che li spingeva dipendesse più da fattori esterni.
La cosa sorprendente era la constatazione di come gli studenti del secondo gruppo, anche dopo l'esperimento, dimostravano in classe un desiderio d'imparare maggiore rispetto a prima, addirittura richiedendo più compiti.
Invece gli alunni del primo gruppo, anche se abituati al raggiungimento dei successi, dimostravano una persistenza di risposte negative quando affrontavano delle difficoltà, nonostante l'entusiasmo nel superare certi compiti mediamente difficili doveva in teoria indurli ad una maggior fiducia.
Il fatto sconfortante di questo modello è la constatazione di come il comportamento di questi soggetti non venga minimamente intaccato, rimanendo sostanzialmente uguale a prima.
Nel sistema educativo, sia genitoriale che scolastico, è purtroppo prevalente la tendenza ad assegnare un gran valore al successo ed a mistificare l'insuccesso. Tale comportamento, generalmente in buona fede, è tenuto spesso a fin di bene. Molti genitori, nel sostenere i loro figli, tendono a lodare l'intelligenza perché il senso comune ripercorre strategie che consentano di salvaguardare la fiducia nelle loro capacità credendo che un complimento, a differenza di una critica, possa infondere una miglior difesa al sé della persona.
Questo probabilmente è dovuto ad una concezione stereotipata delle lodi che vengono concepite come un rinforzo atto a superare le difficoltà.
Ma come provano gli studi succitati, le lodi alla persona tendono a renderlo dipendente dall'approvazione esterna, perché percepite come una conferma o meno del proprio valore.
A mio parere la loro azione inficia l'autonomia del giudizio personale poiché, dipendendo da una fonte esterna, diventa impossibile maturare una stima di sé indipendente.
Invero, come afferma la Dweck, il desiderio di confermare la propria intelligenza non crea le condizioni ideali per imparare qualcosa.
Anzi probabilmente tende a favorire l'emergere di sintomi negativi (quali l'ansia), che possono risultare un ostacolo al raggiungimento di certi obiettivi, siccome possono condizionare l'individuo ad agire in maniera sufficientemente funzionale.
Tale dinamica si ripresenta anche nelle aule scolastiche e riflette un modo di intendere l'educazione occupata a perseguire prevalentemente i risultati. L'individuo è valutato quasi esclusivamente in base alle prestazioni senza prevedere un percorso che lo conduca verso l'autonomia e lo sviluppo delle sue abilità.
Questa considerazione è avvalorata dalle ricerche svolte da Dweck sui due stili differenti e in proposito sembra che l'ambiente eserciti un ruolo fondamentale nel delineare un tipo di attribuzione rispetto all'altra.
E' doveroso introdurre altri studi come quelli condotti da Kagan e Snidman (citato in Dweck 2000) che hanno tentato di dimostrare, come possa il temperamento influenzare l'atteggiamento adottato nelle circostanze problematiche, è infatti possibile che una determinata indole dia risposte improntate al coraggio o alla timidezza ma non sembrano essere così importanti nel contrastare un cambiamento. Infatti queste caratteristiche innate, seppur influenti, non dovrebbero diventare determinanti come dimostrano gli esperimenti svolti successivamente della Dweck e i suoi collaboratori.
Essi dimostrano come critiche e lodi da parte dei soggetti educativi, condizionino pesantemente la tipologia di stile adottata, invece una critica rivolta all'impegno più che alla persona, permetteva di attendersi risposte da parte dei bambini più orientate alla padronanza. Non solo, esse confermavano la teoria sull'inefficacia di un uso scorretto della lode.
Infatti la lode è ritenuta comunemente un incentivo positivo per rinforzare la volontà, eppure sembrerebbe rappresentare un serio ostacolo nel processo formativo dei giovani. Questo perché tenderebbe a giudicare più il complesso della persona piuttosto che l'impegno.
La ricerca condotta da Dweck e Kamins (citato in Dweck,2000) in una scuola materna è tesa a dimostrare tre scuole di pensiero in rapporto al modo d'educare con tre tipologie di feedback diversi utilizzati.
Ella divisero i bambini in tre gruppi. Nel primo gruppo la maestra esprimeva un feedback che indirizzava gli scolari all'uso di strategie differenti.
Nel secondo gruppo l'attenzione era rivolta a rilevare un comportamento adatto, chiamato “feedback sul risultato”.
Infine col terzo gruppo si voleva constatare in che modo una critica sul complesso della persona (feedback sulla persona) influisse sul comportamento successivo.
I risultati hanno confermato sostanzialmente le scoperte precedenti, che confermavano quanto la critica incentrata sulle strategie producesse risultati più soddisfacenti. Quest'ultima tecnica infatti tende a favorire maggiormente un'emancipazione dei bambini perché permette di usare metodi di risoluzione dei problemi in maniera più profonda ed elaborata.
In tal ambito veniva dato maggior risalto all'impegno e al lavoro come mezzi indispensabili ad acquisire padronanza.
Per quanto riguarda il terzo gruppo viceversa si rilevavano le risposte peggiori rispetto agli altri due: si evidenziò come gli allievi conseguirono una maggior sfiducia nelle proprie capacità allorquando si palesavano delle difficoltà e manifestando risposte di impotenza e sentimenti fortemente negativi.
Il feedback sulla persona sembra pertanto annoverare risultati negativi in quanto agisce come un giudizio sulla persona. Gli individui che sviluppano una teoria dell'entità sembrerebbero, visti questi risultati, quelli più fragili.
Questa tipologia di persone, interiorizzerebbero dai genitori che il loro valore è sotteso da un buon comportamento oppure dall'ottenimento di buoni risultati scolastici. Per ottenere il loro amore però rinuncerebbero alla specificità che li caratterizza, con la conseguenza a conformarsi ai desideri dei genitori compiacendoli con comportamenti desiderabili.
Le istituzioni scolastiche forse dovrebbero tenere in dovuta considerazione questi aspetti.
Un progetto educativo dovrebbe occuparsi innanzitutto di modificare le false credenze degli individui, le loro convinzioni demotivanti e utilizzare strategie in grado di far acquisire la necessaria padronanza delle loro abilità agli studenti.
Personalmente sono sostenuto dal convincimento che ogni persona sia una combinazione inimitabile di ricchezze, abilità e capacità e credo nella necessità di concepire un educazione interessata a riconsegnare all'individuo la possibilità di compiere la sua “chiamata”.
La conseguenza di ciò è l'affiorare di un essere umano più soddisfatto di sé e forse potrebbe ottimisticamente contribuire al miglioramento della convivenza sociale dal momento che, la sua partecipazione al bene comune, contribuirebbe verosimilmente a trovare un senso alla sua vita.
Probabilmente mai come oggi l'uomo, inserito in un sistema spersonalizzante, sente più forte questa esigenza, tuttavia esprimere se stessi e partecipare attivamente alla vita comunitaria, sentendosi utili, darebbe un maggior significato all'esistenza umana.
I programmi scolastici a mio avviso dovrebbero contemplare una formazione dei professionisti aggiornati sulle nuove ricerche e in grado d'indirizzare gli studenti verso gli obiettivi più utili per loro.
Così come ha dimostrato Dweck è possibile ottenere risultati migliori per gli studenti, contemplando modalità educative alternative ai modelli che vanno per la maggiore, ella infatti ipotizza che gli studenti orientati alla padronanza e quelli orientati all'impotenza abbiano sostanzialmente obiettivi differenti.
Ciò può prevedere un risalto maggiore alle motivazioni, come costrutto fondamentale indispensabile all'apprendimento.
Far nascere una motivazione sentitamente intrinseca, risulta quindi premessa indispensabile per favorire un orientamento alla padronanza.
La prassi potrebbe essere quello di riportare ( nei casi dei soggetti con motivazione estrinseca) il controllo decisionale dall'esterno verso l'interno consentendo perciò di creare le condizioni affinché un soggetto possa autodirigersi efficacemente.
La distinzione tra motivazione estrinseca ed intrinseca è importante sotto quest'ottica ma non completamente esaustiva. White (citato in De Beni, Moè, 2000) infatti estende il concetto di motivazione intrinseca, dimostrando in quale modo la curiosità e il bisogno di esplorazione non siano semplicemente la soddisfazione di un desiderio, bensì la volontà di padroneggiare e controllare l'ambiente per sentirsi efficaci e competenti.
Tale esigenza viene nominata effectance, un bisogno che convalida la tesi della motivazione intrinseca, in quanto si manifesta spontaneamente anche in assenza di rinforzi, addirittura nel caso in cui il comportamento venga punito. Conseguentemente la bassa percezione di sentirsi capaci può far sentire il bambino come controllato dall'esterno facendo diminuire la motivazione all'effectance.
In proposito Harter (citato in De Beni, Moè, 2000) ha proposto una teoria interessante ipotizzando che qualora il bambino venga sostenuto già ai primi tentativi di padronanza ottenendo rinforzi positivi, tende a sviluppare una maggiore emancipazione in proiezione futura da questi feedback esterni. Esso infatti tende ad interiorizzarli, diventando autonomo dall'approvazione altrui.
Al contrario se il bambino viene scoraggiato o non sostenuto in questi primi tentativi di competenza, egli sentirà il bisogno di continue approvazioni esterne, sviluppando in questo caso, un tipico atteggiamento che Dweck definirebbe entitario.

Conclusioni

Queste riflessioni sullo sviluppo della motivazione intrinseca possono risultare fondamentali per un insegnante. Ma un ruolo fondamentale lo svolgono i genitori rimasti in gran parte ancorati ad un sistema di stampo pavloviano che prevede sostanzialmente i classici premi e punizioni per regolare il comportamento.
Il sistema scolastico forse, dovrebbe farsi portavoce e tramite di un educazione più consapevole dove gli insegnanti, in sinergia con i genitori, si occupassero di questi aspetti, visto che la responsabilità educativa non può esaurirsi esclusivamente negli edifici scolastici.
Di conseguenza se venissero concentrate più energie verso un emancipazione vera, i futuri adulti avrebbero maggiori possibilità di cercarsi un benessere duraturo non solo materiale ma anche psicologico e spirituale.

Una motivazione interiorizzata può essere ottenuta nell'eventualità che l'ambiente sociale favorisse la giusta indipendenza e un rinforzo dell'autonomia. Essa sarebbe inizialmente sostenuta con rinforzi adeguati da parte dei soggetti educativi e una volta appresi farebbero parte del bagaglio di conoscenze dell'individuo, finalmente indipendente da sostegni esterni perché comprenderebbe come premiarsi e punirsi.

Wiggins (1990) infine invita ed auspica ad un cambio di prospettiva: “Si tratta di accertare non ciò che lo studente sa, ma ciò che sa fare con ciò che sa”.
Queste prospettive possono gettare le basi per un processo educativo più centrato sulle abilità e caratteristiche dell'allievo. Sentendosi al centro dell'interesse e maggiormente responsabilizzato, l'individuo può essere più motivato a seguire un percorso di crescita, se percepisce l'insegnante come un sostegno capace di guidarlo alla sua "individuazione". Oltre ad essere meno assoggettato alla pervasività di una valutazione fine a se stessa, l'allievo è accettato per quello che è per le peculiarità e potenzialità, in un processo che ha come scopo finale il disvelamento della sua identità.


Bibliografia



Bruzzone D. (2007). Carl Rogers. La relazione efficace nella psicoterapia e nel lavoro educativo. Roma: Carocci.

Deci, E.l. Ryan R.M. (1985). Intrinsec motivation and self determination in human behavior New York: Plenum Press.

De Beni R., Moè A. (2000). Motivazione e apprendimento. Trento:Il mulino

Dweck C. S. (2007). Teoria del sé. Intelligenza, motivazione, personalità e sviluppo. Trento: Erikson.

Gardner H. (1987). Formae Mentis. Saggio sulla pluralità dell'intelligenza. Milano: Feltrinelli.

Moè A. (2010). la motivazione. Bologna: Il Mulino.

Riesman, D. (1950). La follia solitaria. Bologna. Il Mulino.

mercoledì 2 marzo 2011

Rogers e il problema dell'empatia

Uno dei capisaldi dell'impianto  teorico di Rogers verte su l'empatia, fondamentale "abilità" che sembra caratterizzare l'uomo.
Il termine empatia fu coniato nell'area Germanica ed è la traduzione di “Einfuhlung” che significa letteralmente immedesimazion introdotta dal filosofo Lipps agli albori del '900. Egli la definisce come la percezione delle proprie forze vitali e delle proprie energie che, essendo unite indissolubilmente alle forze dell'universo, permettono di costituire un unità originaria col mondo fisico e i suoi oggetti. Lipps  considera l'emblema del contatto empatico l'opera d'arte.
Successivamente il termine viene introdotto da Heinz Kohut (2003), teorico della psicologia del sé.
Lo psicologo assegna all'empatia una funzione primaria in quanto permette un accesso al mondo sociale. Nel pensiero dello psicanalista l'empatia è un mezzo utile a capire l'altro ma, condizione indispensabile, è possedere una buona conoscenza del proprio mondo interiore, possibile solo grazie ad un efficace introspezione.
Uno dei seguaci di Freud,  Ferenczi   applicò per primo nell'approccio analitico il sentire empatico. Esso lo ritiene utile perché favorisce un clima di comprensione, di calore e di partecipazione al dolore, uniche discriminanti in grado di poter indurre il paziente ad aprirsi  al proprio vissuto esperienziale.
Ma è con Rogers che tale qualità assume un importanza fondamentale in tutte le sfere della vita umana. Egli innanzitutto conserva l'immagine di un uomo non solo guidato dall'istinto e dall'irrazionalità, impostazione tipica della scuola freudiana, ma soprattutto capace di dirigere attivamente la propria vita in base ai suoi desideri e obiettivi. Egli è mosso da una radicata convinzione che nell'individuo esiste una naturale facoltà di autoguarigione e che ogni persona potenzialmente sia in grado di evocarla per risolvere i suoi problemi.
Rogers quindi contempla una visione più positiva dell'essere umano tendente, se posto nelle condizioni ideali, alla crescita e alla realizzazione di sé (2007).
Nella sua teoria  l'uomo è essenzialmente  votato al bene e gli eventuali ostacoli psicologici che gli si frappongono lungo la strada vengono considerati come necessari al cambiamento.
 Per certi versi il pensiero di Rogers può sembrare ingenuo siccome contempla l'uomo come essenzialmente buono ma corrotto da un'educazione repressiva che in qualche modo lo “incattivisce”.
 Credo tuttavia, sia importante considerare il suo pensiero per le implicazioni positive rivolte specialmente alla capacità umana di autodirigersi, facendo appello all'esperienza personale ed alla saggezza del proprio corpo, piuttosto che alla razionalità che, in quest'ottica, assume  la funzione complementare di conferma o meno delle proprie sensazioni.
Egli chiama la sua terapia “non direttiva” e si fonda su una concezione diametralmente opposta rispetto alle scuole psicoanalitiche precedenti, ossia sposta l'attenzione dal psicoterapeuta all'individuo riservandogli un ruolo meno invasivo (Rogers, Kinget, 1970).
Infatti il terapeuta dovrebbe svolgere solo una funzione conciliante ed essere in grado di consigliare senza imposizioni. I presupposti  rogersiani danno un autonomia fondamentale all'analista che è propenso alla comprensione e all'apertura del mondo soggettivo del suo interlocutore in modo da favorirne l'autenticità.
Il terapeuta si limita perciò a assecondare  il processo di adattamento e  crescita e rappresenta un'innovativa tipologia curativa perché ognuno è ascoltato per la propria unicità senza il filtro di teorie o preconcetti che sembrano limitare una reale comprensione.
 Concetto fondamentale per Rogers è quello di fiducia, da lui definito come quell'atteggiamento necessario a creare un clima di sicurezza e utile a far emergere le risorse individuali. Fiducia quindi nella capacità della persona di poter far fronte ai problemi e alle difficoltà grazie alle proprie risorse.
Si evince che  il terapeuta agisce come una sorta di specchio per il paziente (che lui chiama cliente perché non vuole stigmatizzarlo come un malato)  permettendogli di vedere in maniera più chiara il suo vissuto.
 L'empatia, come è  specificato dallo psicologo americano è la comprensione della persona in un clima non giudicante, che si realizza immergendosi nella sua soggettività,  senza però fondersi completamente con lui, in caso contrario si avrebbe una semplice identificazione che ne comprometterebbe la comprensione (Bruzzone, 2007; p.110).  Per ottenere ciò  sarebbe opportuno  accettare il vissuto cognitivo e sentimentale dell'altro in tutti i suoi aspetti, sia positivi che negativi, senza tentare di forzarli ma accentandoli per quello che sono, comprendendo il significato della sua esperienza.
Osserva Rogers che se un essere umano  è ascoltato empaticamente, si sente conseguentemente più libero di accedere alla propria soggettività  aprendosi al mondo spontaneamente; al contrario, quando manca la comprensione empatica, l'individuo subisce un irrigidimento tale che, alcuni di essi, possono diventare psicotici.
L'ascolto empatico si contraddistingue nel fare chiarezza nella confusione psicologica permettendo di vedere quello che blocca e condiziona   gettando una luce nel magma delle   paure e delle angosce, accompagnato da una guida sicura che, non essendo coinvolta totalmente, riesce a far emergere ciò che non era manifesto.
Per Rogers l'attitudine empatica non è  innata ma può essere insegnata tramite un opportuno addestramento che suppone la scelta di persone propense a svolgere un lavoro su di sé e prevede una riscoperta della autenticità personale.
Queste importanti tematiche non possono che ricondursi in un luogo, come quello della scuola, ricco di numerose problematiche in cui l'allievo è soggetto ad un continuo mutamento e una certa visione pedagogica, con un orientamento comune nel  privilegiare la libertà individuale, non può non tener conto dello strumento empatico come supporto al bagaglio delle competenze del docente.
L'insegnante dovrebbe entrare nell'ottica che  scopo primario dell'educatore è  facilitare l'apprendimento, non riservandosi semplicemente un ruolo passivo riempiendo di nozioni la testa degli allievi, ma facendo in modo che le lezioni diventino interessanti, interattive e costruttive con la possibilità che ogni studente partecipi alla costruzione della lezione. A mio avviso il docente dovrebbe possedere la sensibilità di comprendere ciò che condiziona la riuscita scolastica tenendo conto di fattori legati a svantaggi socio culturali, alle  dinamiche psicologiche individuali e alle differenze razziali, che inevitabilmente influenzano il giudizio delle persone (anche in  coloro che si dichiarano contro il razzismo e le diseguaglianze sociali).
All'insegna della “non direttività” Rogersiana, da un insegnante sarebbe lecito aspettarsi  un  comportamento che permetta di addentrarsi in un'ottica di comprensione empatica con il discente, favorendo la sua libertà di scelta dei percorsi che argomenti che rispondano alle sue attitudini. Questo può prevedere  l'accettazione della totalità dei sentimenti espressi, come la rabbia, la frustrazione,  la paura, oppure la gioia, l'entusiasmo, l'orgoglio.
Un buon insegnante quindi favorisce un clima adeguato a facilitare l'apprendimento delle tematiche che stanno a cuore agli alunni, individuando sia quelle personali che quelle dinamiche del gruppo. In un clima del genere Rogers da per scontato che nell'educando nasca la voglia di apprendere e perseguire i suoi scopi personali. L'insegnante si occupa quindi di fornirgli i mezzi necessari per apprendere ma anche di essere parte del gruppo scolastico, non ponendosi  in una posizione di dominio ma partecipando al clima intellettuale e sentimentale della classe. Egli è un individuo che non fa mistero del suo mondo, raccontandolo e   mostrando il suo vissuto agli altri individui ponendosi nel contempo come soggetto autentico, in grado  d'accettare i suoi limiti e le paure senza mistificazioni (Bruzzone, 2007; pp. 144 – 145).
In questo contesto l'insegnante agisce come una figura che da sostegno e fiducia nel percorso verso il processo di autonomia del soggetto.
Un altro dei  cardini teorici dello psicologo americano è quello di congruenza, ovvero la capacità di essere se stessi ma anche quella di non parlare in dissonanza con il proprio corpo. Essendo che esso agisce sotto impulsi spontaneistici, difficilmente poter dire qualsiasi cosa verbalmente (in disaccordo col proprio) corpo può passare inosservata. Difatti un incongruenza fra le due forme comunicative renderebbe l'insegnante, agli occhi degli  studenti, come non meritevole di fiducia, andando ad inficiare così il processo socio comunicativo e la possibilità di stabilire un contatto empatico davvero autentico.
Un'educazione siffatta colloca l'onere del giudizio sull'operato dall'educatore all'alunno, che potrà compiere un ragionamento su ciò che è stato fatto  e le eventuali previsioni per raggiungere gli obiettivi prefissati, mentre il giudizio del docente sarà invece incentrato solo sull'operato e non trasmetterà una valutazione sulla persona. Nell'autovalutazione entrano in gioco dinamiche diverse secondo Rogers: “Il grado di soddisfazione ricavato da lavoro, se e in quale misura ha sperimentato una maturazione intellettuale e psicologica; in che misura si è impegnato e sentito coinvolto nel corso dell'attività; se si sente stimolato a perseguire qualche obbiettivo suggerito dall'esperienza educativa”(Bruzzone, 2007; p.42).
Conquistando questo genere di consapevolezza, incentrata sul processo di apprendimento, lo scolaro è in grado di valutare ciò che lo favorisce e lo ostacola nel suo personale processo di crescita.
Rogers ricevette diverse critiche alla sua proposta educativa in particolare riguardo al tema della libertà percepita meramente come un lasciar fare senza uno scopo. In realtà la libertà non è totale bensì concessa gradualmente a seconda delle capacità dell'individuo di saperla governare. In questo senso la libertà deve essere conquistata giorno per giorno perché comporta delle scelte e delle responsabilità per cui è necessario essere in grado di sopportarne il peso, specialmente per quanto riguarda i bambini che non hanno formato ancora una struttura psicologica ben precisa.
 Per fare un paragone si può assimilare la libertà ad un cavallo e le briglie al proprio io. Se la briglia sciolta viene concessa immediatamente, nel periodo d'addestramento,la forza istintiva del cavallo ci disarcionerà  rischiando di farci male. Invece se, attraverso alcune direttive, la libertà di correre verrà concessa gradualmente, la forza dell'animale seguirà i nostri dettami e si dirigerà dove noi vogliamo.
Similmente al rapporto terapeutico, per Rogers, anche quello educativo dovrebbe connotarsi come una relazione alla pari, dove l'insegnante riconosce nel discente un proprio valore personale. In questo genere di legame, più libero e svincolato da pratiche manipolative, si consente l'emergere della creatività, intesa come la produzione di qualcosa proveniente dalla fantasia, scevra quindi di imitazioni degli atteggiamenti e comportamenti altrui, e per questo originale in quanto diretta espressione dell'unicità della persona.

Massimiliano Moresco



Bibliografia

Bruzzone D. (2007). Carl Rogers. La relazione efficace nella psicoterapia e nel lavoro educativo. Roma: Carocci.


Kohut, H. (2003). Introspezione ed empatia. Raccolta di scritti (1953-1981) Torino: Bollati Boringhieri.

Rogers C., Kinget, G. M. (1970). Psicoterapia e relazioni umane. Teoria e pratica della terapia non direttiva. Torino : Bollati Boringhieri.

martedì 1 marzo 2011

Come gli insegnanti possono condizionare la riuscita scolastica degli alunni

Si parla spesso della scuola e dei suoi (numerosi) problemi essenzialmente su tematiche di ordine quantitativo, legate perlopiù all'apparato nozionistico, tralasciando tuttavia argomenti di tipo qualitativo come quello comunicativo, relazionionale e motivazionale dell'individuo.
In questo mia disamina dedicherò ampio spazio a come i vari tipi di linguaggio adottati dai docenti possano influenzare (talvolta irrimmediabilmente) il futuro dei discenti.
La comunicazione umana si esprime attraverso due principali canali: il linguaggio verbale e quello non verbale.  Il primo prevede l'utilizzo della parola orale o scritta. Mentre il secondo riguarda più ambiti: una comunicazione paraverbale, ossia ciò che riguarda indirettamente  la voce (tono, volume, ritmo), ma anche le pause, le risate, il silenzio ed altre espressioni sonore (schiarirsi la voce, tamburellare, far suoni);  un linguaggio definito corporeo che riguarda soprattutto le espressioni facciali.
Il linguaggio non verbale sembra veicolare messaggi molto potenti nella percezione altrui,   spesso agendo sull'inconscio.  Watzlawick, della scuola di Palo Alto,  afferma che è impossibile non comunicare, qualora una persona decidesse di stare in silenzio e solo per il fatto di esistere, comunicherebbe comunque la sua volontà di non comunicare ( Watzlawick, Beavin e Jackson, 1971).
Il linguaggio verbale caratterizza l'essere umano ed è un sofisticato mezzo  per esprimere concetti complicati ed astratti. Esso consente di comunicare con immediatezza e permette ad una persona  (vista la sua intenzionalità) di trasmettere i suoi significati agli altri utilizzando un gran numero di nozioni e permettendo una comprensione più profonda . Inoltre ha la prerogativa di poter rappresentare situazioni passate e prospettare uno scenario futuro con relativa facilità.
Il  più grosso limite del linguaggio orale, vista la sua arbitrarietà, è di rischiare una  rappresentazione  della realtà che rischia di essere fittizia, perché potrebbe fornire messaggi incongruenti rispetto  a quelli provenienti dal corpo. Una comunicazione  efficace invece richiede accordo tra le due forme espressive.
Si può tranquillamente affermare che il linguaggio del corpo di una persona possa esprimere talvolta anche il contrario di ciò che dice verbalmente.  Un interlocutore che comunica discrepanza tra i due linguaggi produce segnali negativi che sarebbero da evitare nell'ambito scolastico (Rogers, cit. in Bruzzone D. 2007).
Mediante i segnali analogici (verbali)  definiamo la relazione che abbiamo con un altra persona ed è solo con questa tipologia di comunicazione che possiamo comprendere le varie sfumature delle frasi non interpretabili. Ad esempio se fossero pronunciate da un computer non potremmo capire questo tipo di espressività. Il linguaggio non verbale può rivelare lo stato d'animo, i  sentimenti, ciò che si sta provando in una situazione specifica e vista la sua non intenzionalità,  risulta difficilmente falsificabile.
L'importanza di questo codice è essenziale perché sembra veicolare la gran parte dell'informazione che un soggetto trasmette ai riceventi. 
Infatti secondo le ricerche condotte da Albert  Mehrabian,in una comunicazione interpersonale solo il 7% viene comunicato con la parola, il 38%  è costituito dal para -verbale (tono, timbro cadenza e ritmo) mentre il restante è occupato dal non verbale (gesti, postura, espressioni facciali).
Ovviamente ogni situazione va contestualizzata e in certe occasioni è difficile credere che il messaggio verbale influisca in maniera così poco determinante. Vi sono persone infatti che concentrano la loro attenzione maggiormente sul verbale dando meno importanza agli altri aspetti. (Birkenbihl, 1993).
Nell'importante professione dell'insegnante, troppo spesso non è contemplata la forza comunicativa del linguaggio corporeo e svariate volte non si presta  necessaria attenzione alla  sfera dei messaggi “silenziosi” che giungono ai destinatari. Tali messaggi se non  elaborati consciamente verranno comunque recepiti e interpretati in qualche modo.
Essere consapevoli di questo tipo di comunicazione, permette di rivolgere maggiore attenzione alla totalità dell'espressione consentendo di trasmettere un'immagine coerente tra i due aspetti espressivi.
All'insegnante  viene chiesto di comprendere la complessità del soggetto educativo, la sua ricchezza e l'influenza che  esercita nella percezione della sua realtà. Numerosi studi dimostrano come l'opinione che ha l'insegnante dell'allievo, determini la sua riuscita scolastica. tal riguardo, sono di fondamentale importanza gli studi condotti da Robert Rosenthal che analizza in quale modo un l'insegnante , possa modificare la percezione del sé dell'alunno.
Le persone a contatto con l'ambiente  tendono, per esigenze di economia cognitiva, a formarsi immagini stereotipate di persone, luoghi e oggetti, per  risparmiare spazio nella memoria e recuperare le informazioni necessarie più velocemente.
Questi schemi mentali  hanno quindi l'importante funzione di organizzare il caos nel mondo in cui il soggetto vive. Lo svantaggio di questo ordine mentale risiede nella refrattarietà a modificare questi modelli che agiscono indipendentemente dal soggetto e  richiedono un sforzo consapevole per poterli mutare.
Logicamente l'insegnante non è immune dal percepire il mondo in questo modo tende infatti a crearsi un idea iniziale dei bambini con cui si relaziona e  questa prima impressione condizionerà fatalmente una rappresentazione più esaustiva del soggetto.
 Ad esempio se un bambino appare meno brillante rispetto ai compagni, l'insegnante tenderà ad assegnarli un'etichetta e in futuro, concentrandosi su quegli aspetti che confermino le proprie credenze ogni volta che il bambino si trova in difficoltà, si  creerà un'immagine stereotipata non rispondente ad una realtà oggettiva dell'individuo. Al contrario, tenderà a dare minor importanza alle situazioni in cui il bambino si dimostra competente. Le convinzioni sulle abilità dell'allievo si rifletteranno sul comportamento e conseguentemente sulla comunicazione verbale e non verbale dell'insegnante, che invierà all'allievo  condizionandone il rendimento scolastico.
L'insegnante potrebbe anche crearsi una concezione più positiva di quanto l'alunno meriti  cosicché le sue aspettative saranno improntate a maggior affabilità, calore e interesse. In questo caso il condizionamento che ne deriverebbe sarebbe positivo.
Come abbiamo visto, Rosenthal  definisce questa conseguenza effetto pigmalione ed viene paragonata alla stregua di una profezia che si realizza. Egli la definisce così: “la forza delle  aspettative che nutriamo nei confronti di un altro è tale da poter già di per se sola influenzare il suo comportamento. E' un fenomeno che definiamo avverarsi delle profezia: il concetto che ci facciamo circa le capacità di un individuo talvolta è decisivo per il suo divenire futuro” (Rosenthal, Jacobson, 19991, p.14). Talvolta queste profezie provengono dalla stessa persona.
Poniamo ad esempio il caso di una persona che suppone, per una sensazione o per qualche problema relazionale, di non piacer al prossimo. A causa di questa idea probabilmente si comporterà in modo ostile generando intorno a sé proprio quel disprezzo che si aspettava, fornendosi la prova della sua convinzione. Per lo stesso motivo un individuo che ha un alto senso di sé e per questo si aspetterà di piacere agli altri cercherà ogni convalida positiva per avallare la sua aspettativa.
Tale semplificazione, meramente funzionale a comprendere il concetto, logicamente non si esaurisce in situazioni così schematiche.
E' da tenere in considerazione che la costruzione della realtà è mediata dalle  esperienze personali (diverse per ognuno) che condizionano l'individuo. La mente dell'uomo può essere paragonata a quella di un computer e ogni conoscenza simile viene etichettata formando degli schemi mentali  Come ho avuto modo di spiegare  la formazione dei concetti può avere degli esiti positivi o negativi perché gli oggetti reali del mondo, ordinati in base alla somiglianza ne compromettono una comprensione più esaustiva e specifica. Ciò si esplica logicamente anche nel rapporto con gli altri ed è sintomatico come gli schemi cognitivi interiorizzati diano una valutazione parziale degli individui con cui si entra in contatto.

A metà degli anni '60 Rosenthal e Jacobson, (1991) conducono una serie di esperimenti con classi vere. Il più celebre fu sviluppato in una scuola elementare pubblica americana, l'Oak School, sottoponendo ad un test d'intelligenza la totalità degli alunni. Successivamente i ricercatori, selezionarono in modo casuale i soggetti e  stabilirono arbitrariamente chi fossero quelli più intelligenti, in modo che si potesse prevedere per questi banbini i maggiori progressi. Fecero credere agli insegnanti che i risultati dei test erano altamente attendibili e diedero loro una lista di soggetti che avrebbero dovuto fornire ottime prestazione.
Ebbene dopo un anno i due scienziati tornarono nella scuola e constatarono che i soggetti  indicati dai ricercatori  ebbero effettivamente i migliori risultati seppure fossero  stati scelti a caso, senza tener conto dei test intellettivi.
Il motivo di ciò è da ricondursi nella maggiore attenzione e cura che gli insegnanti riservarono loro. A differenza dell'effetto alone che si basa essenzialmente sulla generalizzazione  di una singola caratteristiche che “illumina” anche le altre, nell'effetto Pigmalione invece la situazione è più complessa e la forza delle aspettative che l'insegnante nutre nei confronti del discente è tale da influenzare il suo comportamento. Tali aspettative si traducono tramite il linguaggio corporeo, la voce e  il sistema d'insegnamento.
Secondo la teoria di Rosenthal le aspettative positive creano un clima socio emotivo più caldo, gli esaminatori  convinti di avere di fronte soggetti  capaci li trattano in maniera amichevole,interessata, dando più feedback, e rinforzi a seguito di risposte positive. Esiste quindi un maggior coinvolgimento per la riuscita di questi soggetti considerati più “interessanti”. Invece coloro che vengono percepiti come meno intelligenti, subiscono esattamente un trattamento opposto alché il docente ha  meno interesse delle sorti dell'allievo e gli assegna minor fiducia.
Rosenthal condusse, per rendere più significativa la sua teoria, anche esperimenti con i topi cercando di dimostrare questo effetto anche sugli animali. Egli assegnò ad alcuni studenti universitari un certo numero d'animali e gli comunicò che alcuni di essi erano più intelligenti e capaci di risolvere problemi. A dimostrazione della teoria,  come nel caso degli insegnanti, gli studenti convinti di seguire topi più abili, agivano sotto l'impulso di questa credenza trattandoli in maniera più calda, interessata e amorevole invece se ritenevano di avere dei ratti meno capaci assumevano una condotta più fredda e disinteressata.
I risultati furono un successo. I topi che subivano l'influsso positivo miglioravano giorno per giorno le loro prestazioni. Infatti correndo in un labirinto, trovavano l'uscita più velocemente e con più sicurezza, mentre i topi “stupidi” ottennero risultati poco considerevoli, addirittura alcuni di loro non si muovevano nemmeno al momento della partenza (Rosenthal, Jacobson, 1999; p.67)
Valutando il comportamento degli studenti si apprese che, convinti di seguire cavie intelligenti, li toccavano delicatamente, gli parlavano favorendo un clima rilassato e  incoraggiante, mentre nell'altro caso i soggetti trattavano i topi con sufficienza oppure li sgridavano in modo aggressivo quando incappavano in qualche errore.
Da ciò si deduce come la valutazione possa influire seriamente non solo per gli esseri umani ma anche per gli animali e ciò sembra avvalorare la tesi, che più del linguaggio verbale, è fondamentale ai fini educativi quello non verbale o paraverbale.
 Rosenthal analizza anche il ruolo degli stereotipi nell'influenza del comportamento altrui che fanno sentire il loro effetto anche nel settore educativo.
Gli stereotipi sono visioni semplificate e schematiche condivise da un certa comunità nei confronti di un altro gruppo sociale e riguardano generalmente la razza, la religione, il sesso, lo status sociale e la condizione economica. I pregiudizi invece sono una degenerazione degli stereotipi ed hanno una connotazione fortemente negativa. Essi sono la tendenza psicologica ad attribuire ad una persona le caratteristiche negative di una data categoria sociale in base a delle credenze personali o quelle della propria cultura di riferimento.
 Il professor Rosenthal ha constatato quanto tali idee precostituite possano rappresentare un ostacolo alla comprensione degli alunni in quanto la persistenza e la  difficile mutabilità,  generano una distorsione valutativa che  compromette decisamente una oggettiva e  variegata comprensione dei soggetti interessati.
Egli analizzò  specialmente le minoranze etniche che in quella scuola erano rappresentate in particolare dai bambini messicani e da quelli provenienti dalle zone più degradate e periferiche della città  dimostrando come questi apparissero  meno intelligenti innanzi agli occhi degli  insegnanti. Gli eventuali successi che potevano conseguire le singole persone di questa categoria,  li faceva percepire ai docenti come maggiormente somiglianti ad un americano. Questo perché nello stereotipo “messicano” erano incluse credenze che escludevano il concetto di “intelligenza” indi per cui doveva per forza  rientrare in una categoria ( “americano”) che non minasse la forza  della credenza. Considerare un altra etnia come meno intelligente  è una dei pregiudizi più comuni e nell'esempio di Rosenthal che riguardava i messicani, i docenti li percepivano molto più simiglianti nei tratti somatici ad  un etnia anglosassone in modo che conservassero la coerenza con il proprio pensiero.

Massimiliano Moresco



Bibliografia

Birkenbihl V. (1993). Segnali del corpo, come interpretare il linguaggio del corpo. Milano. Franco Angeli.

Bruzzone D. (2007). Carl Rogers. La relazione efficace nella psicoterapia e nel lavoro educativo. Roma . Carocci.

Rosenthal R., Jacobson, L. (1991). Pigmalione in classe. Milano, Franco Angeli.

Watzlawick, P. Beaven S. Jackson D.D.. Pragmatica della comunicazione. Studio dei modelli interattivi. Delle patologie e dei paradossi. Roma. Astrolabio.